13/12/12

would you please



"Le auguro buonanotte, mister Rothman"
"Aspetti un secondo..."

Declan lasciò la mano sospesa sull'apertura dello sportello posteriore della macchina.

"Mi scusi?" chiese aggrottando le sopracciglia. Era notte da un pezzo, e sentiva la necessità di una doccia calda e un bicchiere di vino. Cercò di seguire lo sguardo dell'autista verso l'ingresso del grattacielo che la ospitava.

"Rimanga in macchina chiudendo le portiere, controllo" suggerì lui, e scivolò fuori dall'abitacolo. Lei azionò tutte le serrature, non riuscendo ancora bene ad individuare ciò che lui avesse visto. Seguì con gli occhi chiari la sua figura. Lo vide avvicinarsi ad una persona. Era sul marciapiede, a pochi metri dall'entrata del palazzo. Seduta per terra, si abbracciava le ginocchia e pareva scossa da continui sussulti. Declan la osservò incuriosita finché non riconobbe, sotto la lana sintetica di un cappello grazioso, qualche ciocca di capelli rossi. Uscì dalla macchina di fretta, avvicinandosi ad entrambi.

"Miss Khan, dovrebbe risalire in..."
"Nadja" chiamò lei, la voce bassa e incalzante. Si guardò attorno con nervosismo malcelato, attendendo il flash di una macchina fotografica o il lampeggiare del led di una holocamera.
"La conosce?"
"Nadja, cosa diavolo ci fai qui?"

Sua sorella teneva il mento affondato nelle braccia e singhiozzava vigorosamente. Odorava di alcol scadente e sigarette. Non rispose. Declan rimase ad osservarla per un istante lunghissimo dall'alto verso il basso, tesa, immobile. David Rothman rimase tra loro due, con i palmi aperti e il giudizio in sospeso. Sentì la sua datrice di lavoro imprecare in cinese.

"Gaisi. La porti su"

Rothman abbassò lo sguardo sulla ragazza sconvolta. Allargò leggermente le braccia e si chinò su di lei, tentando di poggiarle delicatamente una mano sulla spalla. Quantomeno per farla abituare alla sua presenza. Declan diresse verso l'entrata del grattacielo a passo sostenuto. Lo scan retinico incontrò uno sguardo gelido, irato. Nonostante ciò, si ricompose in tempo per salutare gentilmente il portiere, con la naturalezza di chi non fosse seguita dal proprio autista con in braccio una ragazza evidentemente ubriaca. Furono i centoventi piani di ascensore più lunghi degli ultimi mesi.

* * *

Nadja Khan era una ragazza sottile e bella come solo le ragazze ricche riescono ad essere. Quando si svegliò nella spoglia stanza degli ospiti dell'interno 120 A di Chaoyiang Street numero trentanove, sentì le tempie premute dalla morsa di un mal di testa poco promettente. Aveva addosso ancora le scarpe e i vestiti del giorno prima, e nella notte rigirandosi si era avvolta sommariamente nella coperta del letto a due piazze sul quale la avevano depositata. Ricordava un uomo, ma in maniera piuttosto confusa. Che quella fosse casa di sua sorella, però, era indubbio: poche persone potevano desiderare una casa priva di colori. Si alzò lentamente e, barcollando, seguì l'odore di caffè. Trovò sua sorella maggiore in un soggiorno ampio, con una splendida vista su Capital City. Seguiva le holonews proiettate al centro della stanza mentre, già vestita e pronta ad uscire, faceva una colazione a base di caffeina e barrette proteiche.

"Buongiorno..." tentò a mezza voce, la testa ancora pesante. Declan spense la proiezione e accavallò le gambe sulla sedia, poggiandosi le mani in grembo. Aveva uno sguardo gelido e analitico. Da sempre.
"Perché sei venuta qui, Nadja?"
Nadja non si era illusa neanche per un momento che le avrebbe risparmiato la vergogna, l'umiliazione. Si passo una mano tra gli spumosi capelli rossi, liberando un viso chiaro e degli occhi appannati. Si sedette di fronte alla sorella e poggiò le mani sul tavolo, unite. Se le osservò a lungo.
"So che è chiedere molto, non... non lo farei se non ne avessi bisogno. Non lo farei, ma... - deglutì - posso rimanere un po' qui?"
"No"
Gli occhi azzurri le divennero lucidi. Strinse le labbra e apparve per un attimo smarrita, come un cane abbandonato. Con la gola annodata si asciugò il viso, la voce le si fece più sottile.
"Lane, ti prego... non ho nessun posto dove andare"
"Pensavo stessi a Gandhi"
"Non posso tornare a casa..."
"Perché?"
"Non posso"
Declan aggrottò le sopracciglia.
"Alla tua età sarebbe forse il caso di rinunciare ad esprimersi per tautologie"
"Lane..."
"Ti ho detto di no". 
Nadja affondò il viso nelle mani, facendo poi scivolare le dita nei capelli. Sembrava esausta. Sconfitta. Rimase in quel modo per qualche secondo. Si riprese con uno scatto, in maniera improvvisa, la piega delle labbra orgogliosa e offesa. Non era la prima volta che supplicava sua sorella. Non era neanche la prima volta che sua sorella era rimasta sorda alle sue suppliche.
"Dove andrai?" le chiese Declan vedendola infilarsi il cappotto con una certa fretta.
"In un hotel, sotto un ponte. Non credo che ti importi" le rispose la minore, di fretta. Si controllò le tasche alla ricerca della carta. Ne sentì la consistenza, ma sapeva bene che il conto si stava lentamente svuotando, e che presto o tardi avrebbe dovuto inventarsi qualcosa. Qualcosa. Autonomamente esiliatasi dalla casa dei suoi genitori - senza che i suoi genitori lo sapessero -, reduce da un fallimento dopo l'altro, priva di qualsivoglia alibi per la ripida discesa che aveva imboccato la sua vita. Incapace, inetta. Se lo ripeteva allo specchio ogni mattina. Non era in grado di badare neanche a se stessa. In ventisei anni, sua sorella non aveva mai mancato di ricordarglielo ad ogni occasione.

"Nadja - Declan si voltò verso di lei quando ormai era sulla soglia dell'ingresso. - Cosa è successo?" chiese, negli occhi lo scintillio di una distaccata curiosità.
Lei si fermò. Respirò a fondo. Rispose: "sono incinta". Poi scivolò nell'ingresso di fretta, aprì la porta d'uscita. Indugiò qualche istante sull'uscio, sperando forse che sua sorella la seguisse. Declan non lo fece. Quando Nadja sentì nuovamente il rumore delle holonews, uscì e si richiuse la porta alle spalle.

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