13/12/12

would you please



"Le auguro buonanotte, mister Rothman"
"Aspetti un secondo..."

Declan lasciò la mano sospesa sull'apertura dello sportello posteriore della macchina.

"Mi scusi?" chiese aggrottando le sopracciglia. Era notte da un pezzo, e sentiva la necessità di una doccia calda e un bicchiere di vino. Cercò di seguire lo sguardo dell'autista verso l'ingresso del grattacielo che la ospitava.

"Rimanga in macchina chiudendo le portiere, controllo" suggerì lui, e scivolò fuori dall'abitacolo. Lei azionò tutte le serrature, non riuscendo ancora bene ad individuare ciò che lui avesse visto. Seguì con gli occhi chiari la sua figura. Lo vide avvicinarsi ad una persona. Era sul marciapiede, a pochi metri dall'entrata del palazzo. Seduta per terra, si abbracciava le ginocchia e pareva scossa da continui sussulti. Declan la osservò incuriosita finché non riconobbe, sotto la lana sintetica di un cappello grazioso, qualche ciocca di capelli rossi. Uscì dalla macchina di fretta, avvicinandosi ad entrambi.

"Miss Khan, dovrebbe risalire in..."
"Nadja" chiamò lei, la voce bassa e incalzante. Si guardò attorno con nervosismo malcelato, attendendo il flash di una macchina fotografica o il lampeggiare del led di una holocamera.
"La conosce?"
"Nadja, cosa diavolo ci fai qui?"

Sua sorella teneva il mento affondato nelle braccia e singhiozzava vigorosamente. Odorava di alcol scadente e sigarette. Non rispose. Declan rimase ad osservarla per un istante lunghissimo dall'alto verso il basso, tesa, immobile. David Rothman rimase tra loro due, con i palmi aperti e il giudizio in sospeso. Sentì la sua datrice di lavoro imprecare in cinese.

"Gaisi. La porti su"

Rothman abbassò lo sguardo sulla ragazza sconvolta. Allargò leggermente le braccia e si chinò su di lei, tentando di poggiarle delicatamente una mano sulla spalla. Quantomeno per farla abituare alla sua presenza. Declan diresse verso l'entrata del grattacielo a passo sostenuto. Lo scan retinico incontrò uno sguardo gelido, irato. Nonostante ciò, si ricompose in tempo per salutare gentilmente il portiere, con la naturalezza di chi non fosse seguita dal proprio autista con in braccio una ragazza evidentemente ubriaca. Furono i centoventi piani di ascensore più lunghi degli ultimi mesi.

* * *

Nadja Khan era una ragazza sottile e bella come solo le ragazze ricche riescono ad essere. Quando si svegliò nella spoglia stanza degli ospiti dell'interno 120 A di Chaoyiang Street numero trentanove, sentì le tempie premute dalla morsa di un mal di testa poco promettente. Aveva addosso ancora le scarpe e i vestiti del giorno prima, e nella notte rigirandosi si era avvolta sommariamente nella coperta del letto a due piazze sul quale la avevano depositata. Ricordava un uomo, ma in maniera piuttosto confusa. Che quella fosse casa di sua sorella, però, era indubbio: poche persone potevano desiderare una casa priva di colori. Si alzò lentamente e, barcollando, seguì l'odore di caffè. Trovò sua sorella maggiore in un soggiorno ampio, con una splendida vista su Capital City. Seguiva le holonews proiettate al centro della stanza mentre, già vestita e pronta ad uscire, faceva una colazione a base di caffeina e barrette proteiche.

"Buongiorno..." tentò a mezza voce, la testa ancora pesante. Declan spense la proiezione e accavallò le gambe sulla sedia, poggiandosi le mani in grembo. Aveva uno sguardo gelido e analitico. Da sempre.
"Perché sei venuta qui, Nadja?"
Nadja non si era illusa neanche per un momento che le avrebbe risparmiato la vergogna, l'umiliazione. Si passo una mano tra gli spumosi capelli rossi, liberando un viso chiaro e degli occhi appannati. Si sedette di fronte alla sorella e poggiò le mani sul tavolo, unite. Se le osservò a lungo.
"So che è chiedere molto, non... non lo farei se non ne avessi bisogno. Non lo farei, ma... - deglutì - posso rimanere un po' qui?"
"No"
Gli occhi azzurri le divennero lucidi. Strinse le labbra e apparve per un attimo smarrita, come un cane abbandonato. Con la gola annodata si asciugò il viso, la voce le si fece più sottile.
"Lane, ti prego... non ho nessun posto dove andare"
"Pensavo stessi a Gandhi"
"Non posso tornare a casa..."
"Perché?"
"Non posso"
Declan aggrottò le sopracciglia.
"Alla tua età sarebbe forse il caso di rinunciare ad esprimersi per tautologie"
"Lane..."
"Ti ho detto di no". 
Nadja affondò il viso nelle mani, facendo poi scivolare le dita nei capelli. Sembrava esausta. Sconfitta. Rimase in quel modo per qualche secondo. Si riprese con uno scatto, in maniera improvvisa, la piega delle labbra orgogliosa e offesa. Non era la prima volta che supplicava sua sorella. Non era neanche la prima volta che sua sorella era rimasta sorda alle sue suppliche.
"Dove andrai?" le chiese Declan vedendola infilarsi il cappotto con una certa fretta.
"In un hotel, sotto un ponte. Non credo che ti importi" le rispose la minore, di fretta. Si controllò le tasche alla ricerca della carta. Ne sentì la consistenza, ma sapeva bene che il conto si stava lentamente svuotando, e che presto o tardi avrebbe dovuto inventarsi qualcosa. Qualcosa. Autonomamente esiliatasi dalla casa dei suoi genitori - senza che i suoi genitori lo sapessero -, reduce da un fallimento dopo l'altro, priva di qualsivoglia alibi per la ripida discesa che aveva imboccato la sua vita. Incapace, inetta. Se lo ripeteva allo specchio ogni mattina. Non era in grado di badare neanche a se stessa. In ventisei anni, sua sorella non aveva mai mancato di ricordarglielo ad ogni occasione.

"Nadja - Declan si voltò verso di lei quando ormai era sulla soglia dell'ingresso. - Cosa è successo?" chiese, negli occhi lo scintillio di una distaccata curiosità.
Lei si fermò. Respirò a fondo. Rispose: "sono incinta". Poi scivolò nell'ingresso di fretta, aprì la porta d'uscita. Indugiò qualche istante sull'uscio, sperando forse che sua sorella la seguisse. Declan non lo fece. Quando Nadja sentì nuovamente il rumore delle holonews, uscì e si richiuse la porta alle spalle.

10/12/12

black holes



This is a black hole. It consumes matter. Sucks it in and crushes it beyond existence. That's Evil at its most pure. Something that drags you in and crushes you and makes you... nothing. 
Questo è un buco nero. Consuma materia. La risucchia e la annienta oltre l'esistenza. E' il Male nella sua forma più pura. Qualcosa che ti attira al suo interno, ti annienta e ti riduce... al nulla.

You don’t interact with the things we know in the way that we expect. Your presence, your actions, can only be inferred by a certain…absence.
Is that a compliment?
Absolutely.
Non interagisci con le cose che conosciamo nel modo in cui ci aspettiamo. La tua presenza, le tue azioni, possono essere suggerite solo da una certa... assenza.
E' un complimento?
Assolutamente.











06/12/12

pendragon


2 Gennaio 2514.
Twin Towers, Capital City. Laboratori genetici.

"Complimenti per la sua nomina a vice CEO, miss Khan".

Declan Khan sorrise distrattamente al suo interlocutore in camice bianco, facendo scivolare il suo c-pad nel tiepido sonno dello stand-by. 

"Prego, di qua". Conrad Mayhem era un uomo che aveva sempre indossato occhiali spessi. Da giovane non piaceva alle ragazze e all'università non faceva parte di nessuna confraternita. Si era comunque riuscito a laureare con il massimo del tempo con una brillante tesi sulla ricombinazione genetica creativa. Aveva visto il vario susseguirsi di leader a capo di Blue Sun Capital City, ma Declan Khan era la prima a mostrare un interesse così diretto per il suo lavoro.

"E' fortunata, ci viene a trovare esattamente in occasione di una nascita" tartagliò preciso Mayhem, guardando la rossa indugiare sulle gabbie degli scimpanzé. Tomoto, intento a ricomporre un puzzle di plastica in dieci pezzi, si interruppe per guardarla. Lei sorrise.


"Lo so. Sono venuta appositamente, in effetti. - superò lentamente la gabbia, tornando con gli occhi sul genetista - per il Felis X039. Mi incuriosisce il processo dell'imprinting su creature create in provetta"
"E' un processo... interessante - Mayhem si fermò a guardarle i capelli per un attimo. Quando se ne rese conto si affrettò ad abbassare gli occhi sulla sottile cartellina elettronica che teneva tra le mani - abbiamo, ahm... abbiamo scoperto che l'imprinting degli esemplari sviluppatisi negli uteri sintetici è circa, ahm... circa dieci volte maggiore. Intendo, dieci volte maggiore di... di quello normale - scosse il capo - ... lo vedrà, comunque. I nostri scienziati sono... mh. Abituati"

"In verità, vorrei essere io il soggetto di questo particolare imprinting"

Mayhem sbatté le palpebre. La sua interlocutrice appariva fin troppo serena.


"Mi scusi?"
"Ho notato che uccidete gli animali al raggiungimento della maturità"
"S-sì... dopo un anno, circa, per i felides... li addormentiamo. Non sono più utili ai nostri studi"
"Benissimo. Tra un anno, vorrei che questo esemplare mi fosse recapitato"

"Reca... miss Khan, non credo... ahm, io..."
"E' questo?"

La donna si fermò davanti al quarto utero artificiale, avvicinando notevolmente il volto alla superficie di vetro sottile che lo conteneva. Era ancora privo di pelo, gli occhi chiusi e le orecchie già lunghe diverse centimetri.

"Sì..."

La vide sorridere di nuovo.

* * *

6 Dicembre 2514.
Chaoyiang Street numero 39. Capital City.

"E' una fottuta bestia, un animale pe-ri-co-lo-so Jen Dawson scandì il concetto in modo cristallino mentre effettuava la delicata manovra utile a depositare la gabbia sul tetto del grattacielo. Il bestione aveva fatto ballare il suo elicottero per tutto il tragitto  - non lo so che cazzo ha in mente la gente... per me la sbrana - argomentò mentre masticava vigorosamente una gomma alla nicotina - quanto ti ci giochi che la sbrana?" urlò alla cuffia.

"Piantala, Jen" la riprese Frank, dall'altro capo della comunicazione. Si conoscevano da anni, ormai: la compagnia per cui lavoravano si occupava di trasporti aerei atmosferici per la Blue Sun dalla fine della guerra. Si andò a piazzare sotto l'elicottero, iniziando a sganciare tutte le sicure che tenevano il box rinforzato. Al suo interno la bestia si agitava. Era agitato anche lui. Agitato a sufficienza da sobbalzare quando si ritrovò alla sua destra miss Declan Khan, intenta serenamente ad aprire la serratura elettronica dello sportello frontale.

"Ooooh, che fa? - chiese lui, saltando una manciata di passi indietro - non... cazzo, cioè, scusi, non può farlo quando..." quando? Alzò la testa al cielo, considerando di attaccarsi lui stesso ai ganci e farsi portare via di là da Jen, in volo.

Declan Khan aprì lentamente lo sportello, rimanendo chinata sulle caviglie di fronte ad esso. Il ringhio basso e aggressivo del felino si fece gradualmente meno intenso, fino a sparire del tutto. Allungò una mano in modo che potesse prendersi il tempo necessario per annusarla. Riconoscerla.

"Huanyìng hai nèiwài, Pendragon"

L'animale scivolò lentamente fuori dal box, avvicinando il muso alla sua mano.

Frank rimase a guardare la scena, esterrefatto.

Declan Khan rise piano.


30/11/12

have a cigar


Come in here, dear boy, have a cigar.
You're gonna go far, fly high,
You're never gonna die,
you're gonna make it if you try
they're gonna love you


Charlotte Alcot è fuggita con un accompagnatore della Shouye rinnegato. Laughter si è preso un congedo fino a data da definirsi. Ho incontrato Quinniperseliys Thomson per totale caso a bordo di questa stessa nave, con i piedi scalzi. Fa la macchinista e ha iniziato a lavorare in un ranch, il Black Oak della Buffalo County di Greenfield. Tre vice-Ceo, ognuno con le sue particolari qualità, che hanno lasciato la Blue Sun. Due su tre che hanno deciso di ritirarsi dal mondo civile. Bruciati, probabilmente irrecuperabili.

Declan Khan prese un altro profondo tiro di fumo. Era una sigaretta al mentolo, di quelle sottili che comprava nel Core. Indossava abiti per lei insoliti e aveva i capelli sciolti. In piedi sulla catwalk della Monkey Wrench, guardava la stiva. Teneva i gomiti poggiati sulla balaustra e si concedeva una posa più rilassata del solito. L'aria del rim, forse. Poggiò gli occhi sulla donna che si aggirava nella stiva, sotto di lei. Le parve inquieta.

Niente tuta, oggi. Una persona particolare, inquadrata imperfettamente. Non ha partecipato alla guerra, ma ha qualcosa di marziale nel modo di porsi. Cerca da me conferme e ordini come farebbe un militare, e non si muove prima di averli ricevuti. Quando sta ferma, in piedi, sembra stare a riposo. Come i militari, non contraddice mai i suoi superiori: quando le parlo ho la continua, netta sensazione che mi assecondi, che si preoccupi di non contraddirmi. Ha anche qualcosa di vagamente vanesio. Nel modo in cui ancheggia e nell'ossessione verso quell'abito nero che la riveste come una seconda pelle. Nel non legarsi i capelli, anche. Dovrei conoscerla meglio, anche se la sua storia personale non pare interessante. Conflitti col padre. Comune.

Fece un altro tiro. La salutò con un cenno del capo calmo, tornando a scorrere la stiva con gli occhi. Il capitano era quasi arrivato alla fine del suo sigaro. Si passò la lingua nell'interno della guancia, ascoltandone le parole filodiffuse in tutta la nave.

Sembra un po' più vecchio, un po' meno sereno. Ha un paio di rughe d'espressione in più, ma pressapoco lo stesso odore che ricordavo. Forse è il legame emotivo che ha con questo pianeta. Forse non è solo quello, non saprei dire con precisione assoluta. Leggermente incerto, all'inizio, privo della sicurezza che ricordavo sua. Addirittura a disagio, per un attimo. Meglio, poi. Molto. Il sigaro che ha tra i denti è uno di quelli. Devo tornare da lui prossimamente, vedere se cambia e se è cambiato. Se è un uomo diverso. Sarebbe interessante capire cosa gli è successo, in questi mesi, e valutare come ha influito sul carattere. Ritter potrebbe essere in questo senso d'aiuto, ma ho poca voglia di espormi. Devo considerare meglio.

Si mise dritta. Poggiò i palmi delle mani sulla balaustra con la sigaretta che ancora le fumava tra le dita e osservò fuori, un'ultima occhiata al suolo di Shijie prima che la rampa fosse del tutto sollevata e il portellone a chiusura stagna sigillato.

Tre secoli fa, trent'anni fa, tre anni fa: ciò che stiamo per fare su queste terre sarebbe stato considerato un miracolo, un'opera di Dio. Tre anni è il tempo che è servito per far passare dall'area d'influenza del divino a quella dell'umano. Dello scientifico. E' questo il tempo in cui vivo: l'era in cui l'uomo ha superato Dio. E io sono al suo centro esatto. Ventimila dollari, una nave da trasporto e poche settimane: oggi non ci serve nient'altro per far resuscitare decine di ettari di terra morta oltre ogni dubbio.

Il ragazzo intimo con la Krushenko: Joe Black. L'altro giorno ha detto che ciò che è morto deve restare tale. Che non bisogna giocare a fare Dio. L'idea che vita, morte e resurrezione siano prerogative di entità astratte è tipica di chi non conosce la storia. L'ingegneria aerospaziale ha costruito le arche che hanno permesso all'umanità di continuare a sopravvivere, nonostante la sua prima culla stesse morendo - dalla stessa umanità uccisa -. Lo studio della geologia e della terraformazione ha reso possibile rendere ospitali pianeti su cui altrimenti non avremmo potuto mettere piede. Il diserbante chimico e le armi di distruzione di massa hanno sepolto sotto metri di detriti e cenere terreni un tempo fertili. Mondi interi. E adesso il fertilizzante Blue Sun darà nuova vita a quegli stessi mondi.

La scienza dà come la scienza toglie, in un ciclo continuo. Abbiamo sottratto potere alla natura. Nel mio secolo esiste un solo Dio, ed è quello che prende forma nelle mie stesse mani.

27/11/12

working class villains



Corona, 8 agosto 2499.

Alban Khan e sua moglie contrattavano da almeno un quarto d'ora.

"Faremo tardi"
"Ci sono andato l'ultima volta"
"Lo sai che sei l'unico che ascolta"
"Non mi ha ascoltato l'ultima volta"
"Statisticamente parlando..."
"Usciamo e basta, faremo tardi"


Louise Nerhu era una donna dallo sguardo accogliente, raddolcito da diciotto anni di esperienza materna insolita e, per molto tempo, poco appagante. Si mise risoluta le mani sui fianchi osservando per qualche istante una bambina di undici anni intenta a giocare a un holo-game di simulazione nel salotto. Aveva i capelli rossi che venivano trasmessi, di generazione in generazione, dalla linea genetica materna di Louise.

"Ogni volta questa storia, è ridicolo" lamentò con un sospiro. Si mise a salire le scale tirandosi sulle caviglie l'elegante abito da sera che indossava. Raggiunta la stanza della figlia maggiore, bussò un paio di volte ed entrò con discrezione, ma senza aspettare l'avanti.

"Lane", chiamò con una certa risolutezza.

"Lane" era seduta a gambe conserte in una morbida poltrona di pelle. Indossava una maglietta delle Shenzen Tigers e i pantaloni di una tuta. La montatura nera degli occhiali da vista nascondeva in parte un viso dai lineamenti morbidi, ma non ancora definitivi.

"Dimmi" la messa a fuoco del suo sguardo attraversò l'holografia parziale al centro della stanza e raggiunse Louise. Era una proiezione muta, la rappresentazione di un cervello umano nel momento di attivazione del suo lobo temporale anteriore. A Louise si strinse appena il cuore, come accadeva ogni volta che sorprendeva sua figlia in attività inusuali per una ragazza della sua età. Declan interruppe la simulazione e rimpicciolì la proiezione olografica senza fretta, ma sfuggendo per un paio d'istanti lo sguardo di sua madre.

"Sei sicura di non voler venire?"
"Sì, sono sicura"
"Mh. Come mai? Esci con Jonathan?"
"Non frequento più Jonathan dall'inizio dell'estate"

Louise spalancò bene gli occhi grandi e tondi mentre qualcosa nello stomaco si attorcigliava.

"Oh, e stai... bene?"
"Perché non dovrei"


L'assoluta neutralità della voce di sua figlia non la lasciava ormai più spiazzata da tempo. Durante l'infanzia avevano pensato ad una forma particolare di Asperger, ma gli specialisti non avevano diagnosticato niente di simile. Ad ogni modo, non era un mistero come avesse giornate buone e giornate meno buone. Nelle giornate buone si sforzava di dare un po' più di espressività alle sue comunicazioni. Louise si chiuse la porta alle spalle e attraversò cautamente la stanza seguita da uno sguardo chiarissimo ed estraneo. Si accomodò all'angolo del letto.

"A maggior ragione, dovresti venire con noi"
"Ho da fare"
"Non puoi rimandare a domani?"
"Preferirei di no"


Louise si lisciò le pieghe sulla gonna del vestito, crucciata.

"Con chi sei uscita queste settimane, se non vedi più Jonathan?"
"Con altre persone"


Declan riavviò il movimento dell'holografia parziale, tornando ad osservare a dimensioni adesso più ridotte l'attività di un comune lobo temporale. Comune, di una persona comune. Della maggior parte delle persone comuni. Gli occhi chiari si fecero assenti, ma Louise sentì l'impazienza della figlia senza troppi sforzi. Voleva se ne andasse.

"Ci sono ragazzi della tua età con cui ti potrebbe piacere parlare"
"Non conosco praticamente nessuno"
"Puoi fare conoscenza. Il figlio sedicenne dei Keynard partirà per l'università, questo semestre. Andrà a studiare giurisprudenza"
"William Keynard?"
"Proprio lui, lo conosci?"
"Di nome. Non mi interessa"
"Il figlio dei Carter?"
"Quale?"

"Non lo so... - ce ne erano così tanti - Holden Carter?"

Declan sbattè le palpebre un'unica volta, lievemente seccata. Spense l'holoproiezione e scivolò verso l'armadio, spalancando le due ante. Aveva una notevole quantità di vestiti, ma indossava regolarmente forse tre, quattro capi. Tutti rigorosamente neri.

"Avete cenato con i Collins cinque settimane fa e mi avete parlato di tre fratelli"
"Sì, Holden dovrebbe essere il più giovane"
"Avete detto Heathcliff, Herbert e Holden. Il primo laureato in medicina, il secondo economista e probabile erede dell'impero Collins e il terzo adolescente che da grande vuole fare il
- storse le labbra - musicista"

Louise ascoltò attentamente, piegò le labbra al disprezzo con cui pronunciava la parola "adolescente". E' un'adolescente anche lei, pensò. Anagraficamente, si corresse. Poi si corresse di nuovo: la misantropia galoppante era evidentemente un segno dell'età.

"Qual è il problema?"
"Ce ne sono vari. Il primo è che non mi sembrano persone interessanti
- selezionò una camicia nera e un paio di pantaloni dello stesso colore. Si infilò dietrò il paravento di carta velina lavorata e iniziò a cambiarsi - il secondo è che tra tutti e tre hai pensato che potessi essere più vicina al figlio di ricca famiglia che disprezza le sue origini e si sente incompreso dal mondo. - era brava ad indovinare, o perlomeno lo sembrava. In verità la metà dei figli degli amici dei suoi genitori non era troppo dissimile da Holden Carter. - la dice lunga sull'idea che hai di me"
"E' difficile avere un'idea di te, Lane, non comunichi molto."
"Penso di comunicare il giusto"
"Gli altri due, non ti stanno simpatici neanche quelli?"
"Non è una questione di simpatia"
"Non li trovi interessanti, allora. Heathcliff?"
"E' un medico..."
"E quindi?"
Louise si sentì leggermente offesa.
"Niente"
, rispose Declan, evasiva. Intanto pensava: è un medico - anni di sacrifici, orari disumani, notti insonni per occuparsi del benesse altrui. Un filantropo. 'Un filantropo', nella sua considerazione, non era un complimento.
"Herbert Carter, allora? - ritentò esausta Louise - non l'hai anche conosciuto? Cos'hai contro Herbert Carter?"
"E'... composto"
"E' composto".
La faccenda assumeva tonalità ridicole.
"Sempre opportuno, cordiale, preparato. Composto" elencò Declan di nuovo, atona.
"Quanto ci hai parlato, per curiosità?"
"Quindici minuti, circa. E' molto bello"
"Bene, è bello... è sufficiente, no?"
"Ma si è laureato in economia"
, un serio problema. Declan emerse dal paravento senza occhiali, vestita.
"Non ti va bene neanche chi si laurea in economia?"
"E' una materia poco interessante"
"Abbiamo escluso anche quella, allora. Cosa manca? Tra due settimane chiuderanno le iscrizioni ai test di ingresso di tutte le università di un certo rilievo"
le ricordò. Lei e Alban lo facevano ormai una volta al giorno, a turni.
"Non ho ancora deciso"
"Non hai una preferenza?"
"Alcune"
"Dovresti vestirti elegante..."
. Per un attimo ci sperò.
"Non vengo con voi, stanno venendo a prendermi"
"Chi?"
"Quelli con cui esco"
"Che sarebbero?"
"Non li conosci"

Declan si infilò in tasca la carta di credito - niente si pagava in contanti, su Corona - e imboccò la porta, mentre Louise rimase seduta sul letto sconfitta. Alban Khan intercettò la maggiore delle figlie più o meno alla fine delle scale interne alla casa, impettendosi un minimo.
"Vieni con noi, allora?"
"No"
"Dove vai?"
"Esco"
"Con Jonathan?"
"No"


Infilò spedita la seconda porta. Mentre scendeva due a due i gradini che l'avrebbero portata nell'ampio giardino e poi al cancello principale, Nadja Khan si affacciò dalla porta piroettando su se stessa per mostrare il bel vestito che avrebbe indossato quella sera.

"Lane, come sto?"
"Non ho tempo"
"Lane, dai! Come sto?"
cercò di strapparle un complimento, vanitosa.

Declan espirò dalle narici, si fermò in fondo alla rampa e si voltò. La guardò con attenzione inespressiva.

"Come chiunque altro"


Poi, prevedibilmente, uscì dal portone e accelerò lungo il vialetto, puntando sulla macchina che la aspettava fuori dal cancello.


* * *


"Oh, eccola"
"Ce l'ha fatta... Fitz, spostati dietro"
"Perché devo spostarmi io?"
"Sta zitto e spostati"

Fitz scrollò le spalle ed eseguì, non senza borbottare una qualche imprecazione generica: scivolò tra i sedili anteriori fino ad atterrare in mezzo a quelli posteriori, beccandosi un paio schiaffi sulla nuca da Gae. Stavano ragionevolmente stretti: la macchina era vecchia e malmessa, usata da almeno tre padroni diversi prima di giungere all'attuale. Puzzava anche, costantemente e di un odore non decifrabile. Declan si infilò al posto del passeggero, accanto al guidatore. Il guidatore (Avery Blake, detto Blake, venticinque anni, fisico da giocatore di Piramyd e pelle abbronzata dal lavoro come giardiniere in una tenuta vicina, con i capelli lunghezza robelle e gli occhi verdi) si sporse leggermente verso di lei, rivolgendole un sorriso bieco che gli tagliava la faccia a metà. Lei continuò a fissare davanti a sé, allacciando la safety belt.

"Muoviamoci, Blake"
"La signorina Khan ha fretta?"
"L'avete portato?"


Declan guardò nello specchietto retrovisore Fitz che sorrideva e sollevava i pollici. Ventidue anni, puliva le piscine dei ricchi e le tubature delle loro mogli annoiate. Jason Hudson, venticinque anni, cacciato con disonore dall'esercito alleato per aggressione e percosse verso un suo superiore, attualmente disoccupato e in visita su Corona per un qualche tipo di "ingaggio" non meglio definito. Gae Wong, ventuno anni, vita sottile e lineamenti orientali, sul pianeta per cercar lavoro da modella e come sempre era già avanzatamente brilla all'inizio della serata. Passò alla nuova arrivata una lattina di vino sintetico. In fondo distribuire le lattine era più o meno quello che avrebbe fatto più tardi nella vita.

Declan se l'aprì e iniziò a bere, mentre Blake avviava il motore e partiva verso le tenute boschive riservate alla caccia. Non era stagione di caccia, in realtà, ma non vi erano a Corona altri luoghi buoni per esercitarsi a sparare.

Arrivati alla fine di uno sterrato al centro di un'ampia radura circondata dal bosco, gli altri uscirono dalla macchina facendo chiasso. Declan rimase al suo posto con le gambe incrociate. Si sfilò una sigaretta dalla tasca e se la mise tra le labbra. Jason si affacciò dal retro dell'abitacolo, che non aveva lasciato. Le porse il fuoco di uno zippo, rimanendo poi poggiato con i gomiti ai sedili anteriori.

"Pronta?"
. Glielo chiese vicino al viso.
Declan sorrise ed espirò il fumo dalle labbra. I fari della macchina erano l'unica cosa ad aprire il buio che li circondava. Sparsi nella radura, Blake e Fitz iniziarono a cantare Major Tom mentre Gae teneva il tempo con le mani, o perlomeno ci provava.
"Sempre". Vide nello specchietto retrovisore Jason che si ritraeva per andare a pescare qualcosa dal bagagliaio coperto. L'acciaio del fucile scintillò per un attimo.
"Te lo ricordi come ti ho detto che si fa?". Jason le sfilò la sigaretta dalle labbra e la spense nel posacenere della macchina mentre lei apriva il finestrino e scivolava al posto del guidatore. Quello che dava sulla radura. Prese il fucile con delicatezza. Sentirne il peso le fece venire la pelle d'oca. Sorrise mentre se lo poggiava contro la spalla, puntando la canna fuori dal finestrino. Jason scavalcò i sedili e si mise accanto a lei, dietro di lei, attaccato a lei. Ne sistemò la postura mentre lei guardava nel buio rischiarato appena da una luna pigra. Poteva vedere le cime degli alberi. Faceva caldo. Gae era caduta per terra e rideva tenendosi la pancia con le mani.
"Te lo ricordi?" ripetè lui. Declan ne sentì il respiro addosso.
"Gli occhi nel mirino, i muscoli leggermente rigidi. Pronta al rinculo. Lo so."
"Dove miri?"
"L'albero grande"
. Trenta metri, un bersaglio ingombrante e ragionevole. Jason le passò le labbra sul collo bianco mentre lei sistemava la canna sulla linea retta che conduceva all'albero.
"Ridimmela - chiese lei piano, concentrata - quella cosa che recitavate nell'esercito. Ridimmela". Lui sorrise.
"Io non miro con la mia mano - iniziò a sussurrarle nell'orecchio - colui che mira con la mano ha dimenticato il volto di suo padre".
Declan fece scivolare lo sguardo di lato, ma attraverso il mirino. Fitz continuava a cantare and the stars look very different today; Blake aveva per qualche motivo il fiatone e si reggeva con le mani sulle ginocchia.
"Io miro con gli occhi - le passo le labbra asciutte dietro l'orecchio - Io non sparo con la mia mano. - le baciò la linea del viso - colui che spara con la mano ha dimenticato il volto di suo padre - scese sul collo - io sparo con la mente"
Declan corresse appena la mira: nessuno fa centro al primo colpo. Mise la schiena di Blake al centro del mirino, ripetendo a mente: io non uccido con la mia pistola.
Lui continuò, non si era accorto di niente: "io non uccido con la mia pistola. Colui che uccide con la pistola ha dimenticato il volto di suo padre" passò le labbra sulla sua nuca, provocandole un brivido. Era solo un gioco, tra loro due. Ogni tanto ci vuole un po' di adrenalina. Ogni tanto mi ci vuole una rossa, e a lei ogni tanto a lei ci vuole qualcuno che le faccia sentire che vuol dire avere un uomo, e non un lacchè. Erano bravate da ragazzi. Era sesso, o quantomeno qualcosa di pseudoerotico. Era roba per passare il tempo in una vita mortalmente noiosa. La noia ti uccide, lei lo ripeteva spesso.
"Io uccido con il cuore" terminò.
Si sentì il fragore dello sparo a due miglia di distanza. Coprì l'urlo spaventato di Gae e tutte le bestemmie che riuscì a vomitare Fitz in un paio di secondi. Blake era caduto per terra e respirava in modo affannato reggendosi una gamba. Anche Jason imprecò e si precipitò fuori dalla macchina, correndo verso il caduto. Lei tenne gli occhi spalancati, fissi sulla scena, vittima di un'estasi incredula. Blake urlava figlidiputtana ai quattro venti mentre Jason le faceva ampi gesti per metterle fretta e farle spostare la macchina più vicino, dove avrebbero potuto caricarlo facilmente e portarlo in ospedale. Quando vide che non rispondeva, che aveva gli occhi ipnotizzati dal ragazzo agonizzante a terra, andò verso di lei e sfilò il fucile dal finestrino, tenendolo puntato contro il terreno. Vide che le mani le tremavano forte.

"Che cazzo di merda hai in testa?" le chiese tagliando le parole come si faceva nei sobborghi periferici di Manhattan.
"Niente - rispose lei, titubante - niente" ripetè almeno due volte. Riuscendo a trovare a stento il volante, avvicinò la macchina al gruppo e fece caricare Blake sul retro. Si girò a guardarlo. Non era una ferita grave, ma il pantalone era ugualmente zuppo di sangue. Si soffermò a valutare la faccia sofferente del ragazzo, per un attimo confusa, per un attimo esaltata.

"Parti, cazzo"
, urlò Jason.
"Parti, cazzo!" gli fece eco Gae, più stridula.

Partì.

20/11/12

going for a bite

"Un viaggio piacevole, miss Khan?"
"Discreto"


Declan fece un sospiro profondo e affondò nei sedili in finta pelle della sua macchina di lusso, finalmente comoda.

"La porto a casa?"

David Rothman colse nello specchietto retrovisore un cenno di insofferenza all'idea.

"Ho passato la totalità del mio tempo a stringere mani e badare all'etichetta. Non mi hanno lasciato un momento per lavorare"
"Al Blue Sun Building, allora?"
"Santo cielo, no"


Rothman fece scivolare le mani dal volante e se le poggiò sulle cosce, in attesa.

"Lei vive lontano da qui?"
"Abbastanza. Nei sobborghi ad est"
"E ci sono locali aperti, a quest'ora?"


Rothman osservò l'orologio che portava al polso.

"Dipende dal tipo di locali"
"Per mangiare"
"Non credo"
"Che tipo di locali sono aperti, allora?"

"Locali, mh..." tentennò.
"La prego Rothman, sono maggiorenne da diverso tempo"
"Immagino certi locali per adulti"
"E non servono da mangiare?"
"Sì, certo, solo non... pasti completi. Non penso facciano troppa attenzione alla cucina"
"Mi ci porti"


Rothman la guardò di nuovo nello specchietto retrovisore. Doveva essere qualche tipo di test.

"Potrebbe essere l'unica donna tra le clienti"
"Dovrei avere un foulard in valigia..."
"E non è molto raccomandabile, come zona"
"Mi può accompagnare lei"
"Ma la macchina..."
"Ha un ottimo sistema antifurto, l'ho ricalibrato io stessa"
"Ne è sicura?"
"Assolutamente. C'è un codice d'abbigliamento?"

"Non credo, no... forse lei anzi è troppo - tentennò di nuovo - è vestita meglio degli standard"
"Ho un paio di pantaloni in valigia"
"Ne è sicura?"
"Rothman, per cortesia...
- rispose lei esasperata - lei vede la gente che sale in macchina con me di solito, sente i discorsi che facciamo. Non si annoia mortalmente?"
"Io non presto mai troppa attenzione a..."
"Oh, la prego. Pensa che io sia tanto noiosa da poter tollerare tante cortesie, giri di parole, delicatezze, senza fare qualcosa di questo genere una volta tanto?"
"Non trovo che lei sia noiosa, miss Khan"
"Le ho mai detto che mi hanno bandito da uno skyplex?"
"Non credo, no"
"L'hanno fatto, in gioventù. Baravo al black jack. Se non fossi così in vista, lo farei ancora
- si voltò su se stessa e, mettendosi in ginocchio sui sedili, andò a frugare nel tutt'altro che spazioso bagagliaio. Aprì la sua valigia e, andando a colpo sicuro, trovò il foulard. - è una questione di calcolo di rischi. Sono piuttosto sicura che non troverò nessuna delle mie abituali conoscenze in un locale a luci rosse nei sobborghi di Capital City, alle due di notte."
"Mi spiace averla alterata, intendevo soltanto che... non trovo sia un luogo adatto ad una signora"
"Le multiplanetarie non sono luoghi adatti ad una signora, Rothman
- spiegò lei, spiccia - eppure me la sono cavata piuttosto bene. Andiamo?"
"Come desidera, miss Khan"
"Stasera mi chiami Declan, io la chiamerò Dave.
- si legò il foulard sui capelli, curandosi che le ciocche rosse non si notassero - portami a mangiare un boccone, Dave."

19/11/12

i'll prove you wrong


- Lei quindi crede che nessuno che la circonda sia capace di azioni disinteressate.
Declan si distrasse dalla collezione di bassi cactus sintetici poggiati sul davanzale della finestra dello studio. Sedeva al centro di un largo divano in finta pelle, perfettamente a colore con il suo abito nero. Teneva le gambe accavallate e le mani poggiate sul ginocchio superiore.

- Io non credo che nessuna creatura vivente sia capace di azioni disinteressate.

Lo corresse con calma.

- I benefattori, i ricercatori medici, i soldati che partono volontari per andare al fronte...


Declan sorrise, e scosse con leggerezza il capo.

- Non può essere così naive.
- Mi spieghi.
- La coscienza pulita, la fama e i riconoscimenti, l'onore e la gloria.
- Quindi un'azione interessata può essere ugualmente una buona azione.
- Se vuole essere così manicheista. L'egoismo viene normalmente classificato come una spinta dell'animo negativa.
- Allora una madre che rinuncia alla carriera e a uno stipendio gonfiato per prendersi cura dei figli e della famiglia.
- Lei è un terapeuta. Cosa ne pensa?
- Vorrei sapere cosa ne pensa lei.


Riportò gli occhi gelidi sulla fila di cactus. Piante facili da curare, soprattutto nella loro versione artificiale.

- Fare un figlio è in sé un atto di egoismo. Di arroganza anche, volendo. Si decide di concepire per soddisfare esigenze biologiche ed evolutive. Circa l'ottanta percento dei genitori crede di avere un figlio speciale rispetto agli altri suoi coetanei, mentre due genitori su tre si definirebbero genitori più capaci della media. I soli numeri di queste statistiche suggerirebbero il contrario.

Si interruppe un momento. Continuava a guardare le piante.

- Le persone fanno figli perché sono convinte di poter inserire loro stessi in una persona e poi vederla essere di nuovo giovane, possibilmente arrivare più lontano di quanto loro stessi hanno fatto. E' un semplice atto di prepotenza.
- Ne è convinta?
- Fosse altrimenti, non l'avrei appena detto. Lo stesso affetto che nutriamo per le persone è proporzionale esclusivamente a quanto quelle persone ci servono per determinati scopi. Possiamo esserne consapevoli o può essere una spinta inconscia, ovviamente. Ciò non toglie che sia la realtà dei fatti.
- Lei è sempre molto definitiva nei suoi giudizi sulla razza umana, miss Khan.
- Avere aspettative realistiche mi aiuta a controllare l'umore.
- Ha più avuto attacchi d'ira, dall'ultima volta? Riguardava il lavoro, se non sbaglio. Un suo progetto andato distrutto per l'incuria del team che ha riacquisito di recente.

Declan non disse niente. Ci fu uno spasmo impercettibile sulle sue labbra e un busco cambio di direzione del suo sguardo, che si fece più acceso, più aggressivo.

- Vuole parlarne?
- No.
- D'accordo. Ha mai frequentato qualcuno per scopi puramente ricreativi?
- Sì, molte persone.
- E il suo rapporto con loro era interessato?
- La sua prima domanda contiene già la risposta, non trova?
- E quindi ogni suo rapporto con anima viva, lei ritiene, è stato interessato.
- Sì.


Rispose subito, senza aver bisogno di pensarci.

- E' la prima volta che affrontiamo questo argomento. E' successo qualcosa di particolare che l'ha portata a pensarci?
- Sì. Un uomo che mi corteggia in modo blando mi ha invitato di recente a prendere qualcosa da bere. Un militare. Mentre cenavamo, ha cercato conferma di alcune informazioni che non so bene dove abbia potuto prendere. Riguardanti il giro di affati della Blue Sun Capital City.
- L'ha infastidita?
- No, direi di no, anzi. Mi ha permesso di inquadrarlo meglio.
- E' un uomo che le interessa?
- Non particolarmente. E' un soldato ligio al dovere, piuttosto ordinario.
- Quindi cos'è che lei vuole da lui?
- Qualcosa di simile a ciò che lui vuole da me. Un contatto.
- Solo perché la maggior parte delle persone che conosce è interessata, non vuol dire che tutte le persone che incontrerà in futuro lo saranno.

Lei sorrise di nuovo e portò gli occhi su di lui, pieni di un sarcasmo caustico.

- Tutti vogliono qualcosa da me.
- Forse in questo caso è lei a peccare in arroganza.
- Perché? Vengo qui una volta alla settimana. Delle persone di cui le ho parlato, sa indicarmene una non perfettamente inseribile in questo schema?
- I suoi due cani.
 
Il terapeuta sorrise piano, con scherzoso buonismo.

- Niente che non possa sostituire con qualche miglioria al sistema di sicurezza della mia abitazione.
- Sono sicuro che i suoi cani significhino per lei qualcosa di più.

Lei rispose al sorriso freddamente, continuando poi a parlare con pacatezza fino alla fine della seduta.



* * *


Tre ore dopo, tornata ormai a casa da diverso tempo, Declan Khan buttava la spazzatura lungo il condotto di smaltimento rifiuti che andava dal suo piano - occupato esclusivamente da casa sua - al box di tritatura e smaltimento rifiuti che serviva l'intero grattacielo. Oltre al suo sacchetto settimanale di secco, quella sera spinse con una certa fatica giù dal condotto anche due sacchi biodegradabili più grandi e più pesanti, che a malapena era riuscita a sollevare. Sentì il rumore di risucchio del condotto. Poco prima, aveva scelto tra le varie opzioni offerte dal pad selettivo "rifiuti organici".
- Devo trovare un nuovo terapeuta - considerò asciuttamente. Quindi tornò in casa per farsi una doccia.

04/11/12

blondie runs like hell

Seduto per la prima volta in vita sua sul sedile posteriore di una macchina di lusso e con una manciata di capelli bianchi in più di quando erano partiti, David Rothman guardò con estremo sollievo il trentenne biondo scendere dalla macchina e salutare Declan Khan. Ci mise un po' a realizzare di non essere più in pericolo ma, quando lo fece, lasciò le maniglie interne degli sportelli che aveva afferrato con tanta veemenza in attesa di un incidente e uscì dalla macchina vagamente barcollante, facendo il giro da dietro e aprendo la porta a Declan Khan, in modo che potesse tornare sul sedile posteriore.

"Si sente bene, mister Rothman?" chiese lei sorridendo, e Dave fu sicuro di sentire un intento canzonatorio nel suo tono di voce.
"Il suo amico... corre molto, miss Khan"
"Immagino di sì. Abbia pazienza, l'onda adrenalinica... del resto ha passato la serata a sfondare muri"

Sembrava preoccupantemente letterale. Dave non fece altre domande, si assicurò che Khan fosse uscita e rientrata in macchina e chiuse lo sportello di dietro, tornando al posto di guida. Prima di sedersi in macchina si sistemò la cravatta, cercando di recuperare un certo tono.

"La porto a casa?"
"Suppongo di sì... che ore sono?"
"Le tre e dodici, miss Khan"
"Così tardi?"
"Temo di sì"
"Direi a casa, allora. E' stata una giornata stancante"


Dave mise in moto e si propose di andare piano piano. E così fece: fu un viaggio estenuantemente lungo e incredibilmente sicuro, fino sotto l'alto grattacielo dove viveva lei.

"Buonanotte, mister Rothman"
"Altrettanto, miss Khan. A che ora vengo a prenderla domani?"
"Alle otto, come sempre. Se non ci sono problemi."


Dave guardò l'orologio della macchina. Segnava le tre e cinquanta.

"Nessun problema, miss Khan"

02/11/12

twenty items

Declan Khan arrivò al suo appuntamento settimanale perfettamente in orario. Era il secondo terapeuta che cambiava nel giro di due anni, e a breve avrebbe dovuto riprendere i contatti con quello di Capital City. Adam Naday era indubbiamente il professionista più stimato e più costoso di tutta Sadrany, ma lei ci aveva messo almeno otto sedute ad abituarsi a lui. Ritornare sui ritmi e il tenore intellettuale di Simon Harberg avrebbe richiesto altri sforzi. Riflettè riportando alla memoria le differenze culturali tra i due uomini. Harberg aveva due lauree e una formazione preuniversitaria prettamente umanistica. Il suo approccio alla terapia era principalmente emozionale, ma le sue chiacchiere retoriche erano splendidamente condite dalla sua vasta cultura. Utilizzava spesso aneddoti complicati, che Declan aveva imparato a sciogliere solo dopo un po'. La poca chiarezza della sua terapia l'aveva infastidita, a volte, ma l'interesse per i suoi complicati indovinelli psicologici l'aveva spinta a tornare ogni settimana. Naday era completamente diverso. Il suo approccio era tecnico, il suo strumento la logica. Se Harberg si dilungava in un approccio maieutico, Naday viveva ogni deduzione come una sua personale conquista. Alcune sedute erano sembrate una sfida a chi fosse più intelligente. Ma Declan, ormai, si era abituata, e tornare a doversi adattare agli stancanti sproloqui di Harberg le sembrava un'idea insopportabile. Entrò nello studio alla fine di quel pensiero.

"Dottor Naday."
"Miss Khan, buonasera. Come sta oggi?"
"Discretamente. Lei, invece?"
"Non male, la ringrazio."


Declan si tolse il cappotto e sedette al lato del divano, come al solito vicina alla finestra. Naday versò due bicchieri d'acqua liscia e gliene porse uno, andando poi ad accomodarsi sulla sua poltrona.

"Vogliamo riprendere da dove ci eravamo interrotti l'ultima volta?"
"Se così crede, certo."


Continuarono quindi a parlare di Roberts. Roberts era stato il primo di una lunga serie di analisti assegnati al progetto Deep Mind che Declan aveva fatto licenziare. Tutti uomini giovani e da poco assegnati al progetto, scarsamente adeguati ai carichi di lavoro che esso richiedeva e poco disposti a fare sacrifici. Di tutti, Roberts era probabilmente l'unico che si sarebbe potuto salvare. Aveva le spalle più coperte di altri, era più bravo di altri. Aveva avuto una serie di intuizioni interessanti che avrebbero potuto dare una svolta al progetto e che facevano spesso soprassedere sulla sua condotta non esemplare in materia di orari di lavoro. Ma non la rispettava. Dal quando l'ex CEO della Blue Sun Capital City aveva messo piede nella base, aveva insistentemente mirato a minarne l'autorità.

"Provocai un crash temporaneo dei server e fabbricai delle prove che dimostravano la sua responsabilità" si ritrovò a dire dimenticandosi di dare la giusta intonazione rammaricata alla voce. Si guardava le unghie, mentre parlava, e rifletteva ancora su Deep Mind. Erano mesi che non pensava ad altro. Anche mentre faceva altre cose.
"Quale fu la sua reazione?"
"Non ero presente quando fu mandato via, ovviamente. Mi riferirono tuttavia che non fu un passaggio... semplice"
"E lei, invece? Come si sentì?"
"Normalmente, suppongo"
"Ha accennato al fatto che quest'uomo, Roberts... fosse un analista in grado di dare qualcosa al progetto. Non pensò che il suo allontanamento avrebbe potuto danneggiare il progetto?"

"Brevemente. Ma valutai che il mio apporto avrebbe potuto sostituirlo facilmente"
"Non era così bravo, quindi?"
"Non quanto me"
"Non prova rimorso?"

"Dovrei? Qualsiasi persona cerebralmente normodotata avrebbe capito ciò a cui andava incontro"
"Quindi ritiene che Roberts si sia meritato ciò che gli è accaduto?"


Declan Khan alzò lo sguardo chiarissimo su di lui, illuminata da un'intuizione, o forse da uno spiacevole senso di deja-vu. Naday la vide farsi improvvisamente più rigida e più tesa, come una preda che ha intravisto il proprio predatore tra i cespugli. Imprudentemente, andò avanti sulla stessa strada.

"Non temette di essere scoperta dai suoi altri colleghi?"

Declan sorrise in maniera sottile, sarcastica.

"Dovrebbe forse trovare un modo più discreto"
"Mi scusi?"
"Venti items, otto legati al fattore uno. E' riuscito a confermare con quattro domande il secondo, il terzo, il quinto, il settimo e l'ottavo"
"Lei ha familiarità con il PCL-R?"

Declan sbuffò un sorriso sarcastico e spostò lo sguardo di lato.

"Lei è a conoscenza della sua condizione? Le è stata già diagnosticata prima d'ora?"

Declan si alzò in piedi, con l'improvvisa urgenza di uscire da quello studio. Naday si alzò dopo di lei.

"Miss Khan, la prego... ritengo che dovremmo parlarne più a fondo, pensare ad un percorso di..."
"Mi faccia il piacere"
"... un percorso di cura, magari affiancare alla terapia una prescrizione che..."
"E' la mia ultima seduta con lei"
"Miss Khan..."


Ma non volle sentire ragioni. Uscì rapidamente dello studio e invece di aspettare l'ascensore prese le scale. Tornare a Capital City si era improvvisamente trasformata in un'impellente esigenza. Avrebbe prenotato il viaggio quella sera stessa.

01/11/12

Semicrome



La prima cosa che pensò quando chiuse lo sportello, fu che Declan Khan era probabilmente l'unica persona al mondo in grado di chiudere l'ombrello entrando in macchina calcolando perfettamente i movimenti necessari a passare dal primo riparo al secondo, senza prendere neanche una goccia d'acqua. Lui, decisamente meno abile, tornò nell'abitacolo della Laoyin blu metallizzato con i capelli umidi.

"Buonasera mister Rothman"
"Buonasera miss Khan. Dove la porto?"
"Diriga pure verso casa"

Lui avviò il motore e lei si sfilò il cappotto. Dopo circa cinque minuti iniziò a sentire fresco. Si accigliò appena e si sporse sui sedili posteriori. Rothman tenne gli occhi sulla strada, ma avrebbe voluto chiederle cosa stesse facendo.

"Ha cambiato le impostazioni della climatizzazione?"
"Sì, oggi era caldo... è un problema?"
"No. Le sarei però grata se circa trenta minuti prima di venirmi a prendere le reimpostasse"
"Certo... mi scusi, lo faccio subito"

Alzò di quel paio di gradi di differenza il climatizzatore interno e l'abitacolo si riscaldò presto. Declan Khan non disse niente. La guardò nello specchietto retrovisore mentre rilassava la schiena e si puntava due dita ai lati del setto nasale, strofinandosi gli angoli interni degli occhi, passando poi a massaggiarsi le tempie. In qualche modo, Dave fu rassicurato dal sapere che anche lei si stancava.

Era notte, del resto. Aveva sentito dire che a Capital City, come a Xinhion, non era mai veramente notte. Ma le strade erano indubbiamente più sgombre, e non sarebbero bastate tutte le insegne luminose del Core per rendere quel silenzio meno desolante. Ricordò le strade dei quartieri intorno alle fabbriche di Labour Town, quando era ancora un ragazzino e non lavorava dodici ore al giorno. Quando pioveva l'asfalto spaccato e irregolare diventava quasi brillante sotto la luna. Ci si era sbucciato le ginocchia mille volte, finché non aveva imparato a conoscere ogni buca tanto bene da poterla chiamare per nome. Le strade di Capital City erano più lisce, senza scossoni. Proprio come la vita che tanto voleva.

"Le piace la musica, Rothman?"
"Suppongo di sì, miss Khan"
"Suppone?"
"Non ho occasione di sentirla tanto spesso quanto vorrei... il poco tempo, suppongo"
"Curioso"
"Mi scusi?"
"In fondo passa in macchina gran parte del suo tempo, si direbbe che dispone di tutto il tempo di cui ha bisogno"
"Non nella mia macchina, miss Khan"

Non guardò nello specchietto retrovisore perché sapeva che lei se ne sarebbe accorta. Non disse altro, ma strinse le mani attorno al volante.

"Può passarmi..."
"Cosa?"
"L'audiocomando..."
"Quale..."
"No, alla sua destra... più a des... no"
"Questo?"
"E' l'accendino... l'audiocomando, invece, alla sua destra"
"Allora..."
"Sì, quel..."
"Questo?"
"Sì"

Declan sospirò e riportò il busto sullo schienale di pelle morbida. Scorse il touchpad dell'audiocomando alla ricerca della traccia che aveva in mente. Un attimo dopo, si diffuse nell'abitacolo intero il suono delicato di un Chiaro di Luna eseguito da uno dei più noti pianisti di Elèria. Gettò il capo all'indietro in maniera composta e chiuse gli occhi, muovendo le dita sottili a sfiorare le proprie ginocchia come fossero i tasti di un pianoforte.

Quando la musica finì erano ormai arrivati sotto l'alto grattacielo dove risiedeva. Restituì il telecomando in modo che Rothman potesse riporlo prima di andare a parcheggiare nel garage interno.

"La aspetto quindi domani alle otto"
"Sarò puntuale"
"La ringrazio. Le auguro una buona notte, mister Rothman"
"Buonanotte a lei, miss Khan"
 
Lui fece il giro della macchina dalla parte di dietro e andò ad aprirle lo sportello. La vide aprire l'ombrello un attimo prima che anche una singola goccia la bagnasse e guardò distrattamente il portiere di notte sorriderle garbatamente e aprirle la porta. Si chiese se Declan Khan fosse semplicemente quello: la CEO di una corporation che non aveva mai trovato una porta chiusa.

honesty for the cheater

Marzo 2514, Elèria

L'accompagnatore di Nadja si chiama questa volta Trey Montgomery, è un giocatore di Pyramid di serie B. Alto, con le spalle e le braccia piene, i capelli biondi a spazzola e il viso sornione e rubizzo. Ha un senso dell'umorismo becero e fastidioso, e guarda ogni cosa come se volesse mangiarla. Il pranzo quadrimestrale che raccoglie tutti i Khan e tutti i Nerhu è stato anticipato in occasione della mia visita a Gandhi, per festeggiare la mia recente promozione a CEO e il conquistato stato giuridico di skyplex per la BSS1.

Jordan racconta storie di guerra, come al solito. Esprime il suo disappunto dicendo che per lei gli skyplex non dovrebbero esistere, che l'Alleanza ha conquistato il rim ma ancora non riesce ad estendere la sua giurisdizione ovunque. Il resto dei parenti mi chiede informazioni che do in modo gentile e asciutto, sapendo perfettamente che non capiscono le mie risposte. Louise, mia madre, è la prima ad annuire senza sapere minimamente ciò di cui sto parlando, sforzandosi di credere alle menzogne che ho rifilato ai giornali: che la BSS1 porterà il progresso nel rim, che l'ho fatto guidata da ideali perfettamente in sintonia con i grandi obiettivi dell'Unione. Mio padre non ci casca e infatti sta in silenzio, in disparte, cupo come suo solito, con quello sguardo severo che mi ha seguito fin da bambina. Sta invecchiando, mi rendo conto. Lo osservo da lontano, e finalmente ci mettiamo a tavola.

Ma non ho fortuna. Resto intrappolata tra la sorella di mia madre, Nadja e il suo nuovo acquisto, Jordan e Shoonaj, il suo compagno da un anno a questa parte. Mangiamo continuando a parlare e io bevo curandomi di non darlo troppo a vedere. Lo fa anche Jordan. Lo fa soprattutto Nadja, lasciandosi andare in risate brevi e acute che terminano in sospiri trasognati quando poggia la testa sulla spalla del giocatore di Pyramid di serie B. Che intanto parla con me delle Shenzen Tigers, degli Starship Troopers che gli avrebbero fatto una fantomatica offerta, di Pyramid e poi di se stesso, e poi di nuovo di Pyramid. Io lo ascolto a stento, rispondendogli quando devo, chiedendomi quante cose più proficue potrei fare in questo lasso di tempo.

Ariel, mia zia, poggia la sua mano ossuta e smaltata sulla mia, mi sorride a labbra strette, un labirinto di rughe sottili le decora i lati degli occhi.

"Ma allora, Declan cara - mi dice dolcemente, non nascondendo una vaga apprensione nel tono - il lavoro ti sta forse distogliendo dalla tua vita privata? Hai trovato un uomo onesto, a Capital City?"

Chiudo gli occhi e inspiro a fondo, valutando una possibile risposta non brusca. Nadja è più rapida di me nel replicare, e non si zittisce neanche quando spalanco gli occhi su di lei, fissandola. Curioso: quando era piccola bastava questo gesto.

"Lane non è mai stata una tipa da avere uomini, zia... - spiega quasi stridula, come solo l'alcol la rende. Si poggia ancora al braccio del suo giocatore di Pyramid. E' esteticamente volgare quando lo fa: sembra quasi che le manchi una spina dorsale propria - e più una solitaria, per scelta... altrui" e ride in modo quasi squillante.

Ariel continua a tenere la mano sulla mia, nonostante io resti immobile. "E' così, Declan? Hai mai pensato a trovare un modo per dimostrarti più... disponibile? Proponendoti ogni tanto, forse?"

"Ti ringrazio, Ariel... non ho problemi"

"Fidati, nessuno lo sa meglio di me: più si va avanti con gli anni, più diventa difficile trovarsi un uomo da tenere accanto, uno valido. Senza compromettere la propria indipendenza, certo, ma è sempre piacevole avere qualcuno da cui tornare alla fine della giornata..."

"Lane... - di nuovo Nadja. Non la guardo questa volta, tenendo gli occhi fissi sul mio bicchiere di vino. Il sesto, credo. Eppure non sento nebbia - Lane ha i suoi cani da cui tornare. Dovresti vederli zia, il contrario di come dovrebbe essere un cane... una volta uno mi ha quasi staccato il braccio - e ride di nuovo. Mia zia e il suo fidanzato ridono anche loro, considerandola evidentemente una battuta - e i suoi psicoterapeuti, ovviamente. E' sempre stata un po' matta... sembra vada di pari passo con il genio"

"Oh, Declan, vedi un terapeuta? Gli hai già parlato dei tuoi problemi a legarti? Ti ha aiutato?"

Conto. Me lo insegnò il primo di quei terapeuti, a contare fino a dieci prima di avere qualsiasi reazione di ogni tipo.

"A ciascuno il suo suppongo - chi prendo in giro, arrivo appena al terzo secondo - preferisco restare concentrata sul lavoro. Nadja ha sicuramente più successo di me, in questo campo"

E Nadja sorride, gli occhi le brillano sognanti mentre li porta verso il suo giocatore di Pyramid.

"Anche se ovviamente, il rovescio della medaglia c'è per tutti. Non sei stata allontanata dalla scuola di medicina?" chiedo, e i suoi bei grandi occhi azzurri tornano su di me. Con i suoi, anche quelli del resto della famiglia. Di mia madre. Di mio padre anche: "volevo comunque dirti che puoi restituirmi quando vuoi i venticinquemila dollari che ti ho prestato, senza interessi ovviamente... spero soltanto siano stati utili a risolvere la questione in sospeso con quel tuo ex, su quel video... non ci si può proprio più fidare di nessuno oggi giorno. - sospiro, andando ad avvicinare l'ennesimo bicchiere di vino alle labbra, mentre fermo lo sguardo sul giocatore di Pyramid, gli occhi di mia sorella che tremano - e mi dispiace che sia dovuto arrivare fin qui per scoprirlo, Trey, ma le voci che dicono che sia nelle mie intenzioni comprare una squadra di pyramid sono decisamente esagerate... mi sembrava giusto dirglielo ora, per non farle perdere tempo che potrebbe sicuramente investire meglio."

Nadja si alza. Si alza tremando come una foglia, gli occhi pieni di lacrime da ubriaca. La guardo direttamente - come tutto il resto della tavolata - bevendo quel sorso di vino. Sono stata coscientemente inelegante. Non mi capitava da un po'.

Nadja mi dice che sono malvagia. Mi dice che sono cattiva, ingiusta, che lo sono sempre stata. Urla di fronte a tutti che c'è qualcosa di sbagliato in me, che mi rende sadica e crudele. Dice che è dentro di me da quando sono nata, da quando i miei iniziarono a nascondere il fatto che uccidevo i nostri animali domestici per guardarli mentre morivano. Che nonostante tutti i miei successi non avevo nessuno che mi amasse, neanche la mia famiglia, perché amare me è impossibile, frustrante e inutile. Perché io non amo che me stessa e i miei progetti, perché in me non c'è niente che si predispone per accogliere gli altri, per piacere. Dice: "per quanto possa essere storta io, tu resterai sempre quella sola, perché dentro di te c'è solo il vuoto".

Esce dalla stanza piangendo, lasciando tutti attoniti. Louise si alza per seguirla, dedicandomi uno sguardo gelido e spaventato.

Mio padre si alza. Si sistema la giacca, dice: "credo sia ora che tu vada".

"Pensavo che tutta questa festa fosse per celebrare i miei successi - dico io, e non so fino a che punto è il vino a parlare, quando continuo - visto che tendo a portare quelli, ai nostri incontri, piuttosto che una serie di uomini scelti randomicamente tra l'aristocrazia decaduta e questi nuovi pseudo eroi del popolo" faccio un sorriso sottile al giocatore di Pyramid, intontito, chiedendomi se la sua mente riesca a processare il fatto che quelle parole siano un insulto.

"Ora basta, Declan. Tutto ciò è inammissibile"

"Suppongo di star imparando il valore dell'onestà"

"Non penso di essere stato sufficientemente chiaro: non sei più la benvenuta in questa casa."

Sposto quindi lo sguardo su di lui, e un'occhiata fugace mi è sufficiente a capire che non sta scherzando. Mi alzo in piedi, cercando di organizzare la confusione che ho in testa, di ripartirla come uso fare di solito. Mi avvio nel silenzio imbarazzato che si è creato nella sala da pranzo, mi sento gli occhi di tutti addosso. Raccolgo il mio cappotto all'ingresso e vado in macchina. Respiro a fondo, penso un attimo.

Mi sento leggera.

Sorrido piano perché adoro sentirmi esattamente in questo modo: leggera. Con leggerezza sfilo la mia macchina dal vialetto e con leggerezza sfioro i centottanta chilometri orari sulla strada. Mezz'ora dopo, ho già dimenticato tutto.




31/10/12

Heavy Wrists

"Ho letto che Declan è tornata a Horyzon."

Alban Khan rischiò di farsi andare di traverso il ghraiba che aveva fatto ammollare nel tè mattutino. Era una giornata chiara su Eleira, e l'ampio salone da pranzo di villa Khan era illuminato a luce naturale grazie alle ampie e alte finestre che affacciavano sul lato est. Sia Louise che suo marito erano vestiti per iniziare la giornata, e sapevano di avere non più di dieci minuti prima di dover uscire. Alban si ricompose.

"Non vedo come dovrebbe interessarmi"
"Non si è fatta viva per circa sette mesi, Alban, non ha risposto alle nostre chiamate e si è resa irrintracciabile"
"Maadhav ci disse che era stata assegnata ad un progetto confidenziale"
"Quindi?"


Alban si fece più scuro in volto e puntò gli occhi azzurri sul tè profumato. Con un ultimo sorso svuotò la tazza.

"E' stata piuttosto chiara sui rapporti che vuole avere con noi"
"L'hai cacciata di fronte a tutta la famiglia"
"Aveva passato il segno"
"E' nostra figlia, Alban"


C'era una sfumatura severa nel tono di Louise. Nonostante fosse ormai alla soglia dei sessant'anni, aveva ancora i capelli di quel rosso vivo che aveva trasmesso alle figlie, degli occhi brillanti e un aspetto elegante e distinto. Alban Khan (che ne conosceva la furia placida) si impegnò a non incrociare il suo sguardo.

"Non vuol dire che approvi il suo stile di vita"
"Quale stile di vita approvi, tu, che sia diverso dal tuo?"
"Molti. Molti, ma non il suo"


C'era uno spasmo di fierezza in quell'affermazione, ma si sgonfiò rapidamente quando incontrò lo sguardo fermo e terribile della moglie.

"Il modo in cui è stata crudele, con Nadja, di fronte a tutti..."
"Non è piaciuto neanche a me"
"E allora?"
"Allora sono mie figlie entrambe. Voglio che Declan torni a visitarci, Alban, per le feste"
"Credi che lo facesse con piacere?"
"Faceva piacere a me"


Alban ispirò e si guardò l'orologio al polso sinistro. Era un orologio antico, di centinaia di anni. Puro argento. Dietro la cassa, in un alfabeto che avrebbe richiesto a chiunque uno studioso antico per la decifrazione, vi era inciso a piccoli caratteri il nome di Gajrup Muthu Khan. Un orologio tramandato per generazioni da primogenito in primogenito. I Khan avevano avuto primi figli maschi per secoli, passandosi quell'orologio di generazione in generazione. Khan era uno di loro. L'ultimo.

"Ho pensato che potremmo chiedere a Oppilana di incontrarla. Vive a Capital City e fa parte della famiglia. O altrimenti Jordan"
"Declan non soppota Jordan"


Louise sollevò le sopracciglia senza nascondere la sorpresa.

"Non l'ha mai sofferta - continuò suo marito - il fatto che sia andata in guerra l'ha sempre fatta percepire come la persona più di successo tra i giovani della famiglia"
"Non lo sapevo"
"No. Non sai molte cose"


Alban passò la manica della camicia sul quadrante dell'orologio per pulirlo da un alone opaco che vi era depositato, e solo in quel momento si rese conto che era fermo. Aggrottò le sopracciglia e rifletté sul fatto che avrebbe dovuto portarlo ad aggiustare per la terza volta, quell'anno. Non era più uno strumento funzionale.

"Mio padre era un ricercatore - sospirò, lasciando l'orologio al polso - e suo padre, prima di lui. Il mio bisnonno un medico, per tutta la sua vita. Ogni singolo Khan, dalla prima colonizzazione ad oggi, ha resto questo 'Verse un luogo migliore in cui vivere. Ognuno di loro mettendosi al servizio dello Stato."
Louise abbassò lo sguardo e sospirò, aggiustandosi una ciocca dietro i capelli.

"Non è una ladra, Alban"
"Non lo è, è uno squalo aziendale
- sospirò a fondo, sconsolato - vorrei poter guardare con nostalgia a quando era più giovane... ma la verità è che è sempre stata così."
"Così come?"
"Egoista. Cinica. Ma ho sempre pensato che ci fosse una linea che non avrebbe superato... finché non l'ha superata"

Il rammarico glielo si sentiva nel tono di voce burbero. Louise si pulì la bocca e si alzò con un movimento leggero, raggiungendo la sedia di lui.

"E' nostra figlia, Baloo. E la rivoglio a casa"

Gli poggiò un bacio tiepido sulla guancia e si avviò lungo il corridoio: il suo turno in ospedale sarebbe iniziato a breve. E ormai non c'era più niente da discutere.

the one who drives

"Mister Rothman?"

La segretaria fece cenno all'uomo di avvicinarsi.

"David Rothman, giusto?"
"Sono io"

Miss Postma sorrise in maniera sfuggente e apatica, osservandolo superficialmente. Lui indossava un vestito nero con cravatta. La camicia era bianca e stirata in maniera imperfetta, i capelli pettinati all'indietro e la barba sistemata di recente. Accorciata, sicuramente, ma non rasata.

"La CEO è pronta a riceverla"

Gli indicò con un gesto la porta, e lui bussò aspettando di sentire l'avanti prima d'entrare.

"Posso?"
"Prego"
"Buonasera"
"Buonasera. Lei deve essere David Rothman"
"Sono io"

Declan Khan non spostò gli occhi dall'holodeck per altri dieci secondi, lasciando che l'uomo rimanesse un passo oltre la soglia, in silenziosa attesa di un doveroso invito ad accomodarsi. Si prese il tempo necessario a studiare l'ufficio spoglio, essenziale. Niente attaccato ai muri se non la copia cartacea di una Laurea in ingegneria. Nessun soprammobile, solo un basso comodino trasparente contenente alcolici costosi e acqua potabile di prima qualità. Declan Khan finì ciò che stava facendo e mise in stand by l'holodeck. Sorrise in maniera lieve osservando l'uomo per la prima volta.

"Prego, si sieda pure"

Non si alzò per stringergli la mano. David Rothman si sedette.

"Le posso offrire qualcosa da bere?"
"No, la ringrazio"

Un momento di silenzio, Declan Khan lo fissò senza adoperare la solita discrezione di cortesia che usava utilizzare con gente del suo stesso rango sociale. Valutò che Rothman dimostrava quarantacinque anni, e che probabilmente era la sua età esatta. Non aveva fedi al dito né la camicia adeguatamente stirata: non conviveva con nessuna donna né tantomeno era sposato. Il vestito gli scendeva addosso troppo pesantemente. Mezza taglia di più, almeno; pensò: affittato. Ha atteso il permesso per sedersi, ha osservato l'ufficio partendo dagli angoli. La barba è più lunga di almeno un millimetro sulla guancia sinistra: è mancino e non ha i soldi per un barbiere. E' un bell'uomo, un tipo. Qurantacinque anni. Scapolo. Deve avere qualche problema a relazionarsi col prossimo: non esce molto, non fa molta vita sociale. Aspetta gli ordini. Un ex militare.

E mentre lei rifletteva, lui si aggiustava sulla sedia, scomodo, a disagio.

"Mi dica: come mai ha fatto domanda per questo lavoro?"

Una vibrazione verso l'alto delle pupille, un istante brevissimo.

"Ho iniziato la mia carriera guidando mezzi terrestri"
"E come l'ha conclusa?"
"Non ha letto il mio curriculum?"
"No"

Di nuovo disagio: Declan trattenne un sorriso. Rimase seria, attendendo con calma una risposta.

"Sono nato su Meili e ho imparato a guidare per trasporti tra fabbriche, a sedici anni. A diciott'anni mi sono arruolato, ho concluso l'accademia alleata di pilotaggio, poi sono andato in guerra."
"E l'ha vinta"
"Punti di vista"

Un altro lungo silenzio. Declan rimase seduta in maniera composta, con le gambe accavallate e gli occhi azzurri fissi in quelli neri del suo inerlocutore.

"Quindi ora ha bisogno di un lavoro tranquillo"
"Sì"
"E di soldi"
"Come tutti"

Silenzio. Declan si sfiorò le labbra con la punta delle dita.

"Si tratta di essere disponibile e rintracciabile ventiquattro ore al giorno. La macchina da guidare è la mia, una Laoying Settemila"
"Anno?"
"E' uscita due settimane fa"

Declan attese la sorpresa nei suoi occhi, ma invano. Continuò a fissarlo.

"Tutto ciò che sente o vede all'interno della macchina è strettamente confidenziale. Il contratto prevede una clausola di riservatezza: se la infrangerà, mi dovrà un risarcimento che la getterà sul lastrico"
"Onorerò il contratto"
"Bene"

Rimasero a fissarsi ancora un po'. Sì, David Rothman aveva lo sguardo spento del veterano deluso. Declan conosceva fin troppo bene la sua razza: maschi poveri arruolatisi giovani alla ricerca di un riscatto che non era mai arrivato. Li trovava noiosi.

"Ha figli?"
"No"
"E' sposato?"
"No"
"Ha intenzione di sposarsi o avere figli?"
"No"

Un'altra pausa, lunga, per valutare. Era tardi ed era il terzo candidato. Miss Postma ne aveva selezionati altri cinque, e se non avesse assunto lui avrebbe dovuto intervistarli tutti.

"Quando può iniziare?"
"Quando vuole"
"Anche subito?"

Rothman la mise meglio a fuoco per assicurarsi che dicesse sul serio.

"Anche subito"


26/03/12

Artificio




Ho dato tutto alla Blue Sun.

Sarei ingiusta se non dicessi che ho anche preso tutto. Ho preso tutto il possibile, quindi, i soldi e lo status sociale, una casa ampia fornita dalla compagnia stessa, una macchina di lusso, tutti i comfort che avrei mai potuto avere, li ho avuti. Ho anche lavorato duramente come pochi, ho dormito poco. Negli ultimi dieci anni, intendo: ho dormito poco.

Quella che mi ha offerto Jacob Heisenberg, oggi, sulla Blue Sun Station One, è effettivamente una promozione. Per la stessa paga, mi hanno dato la responsabilità di un progetto tanto avveniristico da essere fantascientifico, con scadenze relativamente brevi e una spada di Damocle che mi pende sulla testa: la concorrenza.

E' una spada pesante, che mi costringerà a nascondermi sotto terra per circa venticinque giorni al mese. La base si trova a Xanto, il progetto si chiama Deep Mind.

Intelligenze Artificiali.

Sono combattuta: vivere in una base ingegneristica mi costringerà a tornare all'essenziale, a rinunciare al vino costoso, ai lussi. Devo anche informarmi se i dobermann saranno benvoluti: non posso abbandonarli a nessuno.

Ma è ciò a cui ho sempre voluto lavorare, in fondo, ed è a poche centinaia di miglia da Sadrany. E' una città che conosco, che mi ha sempre affascinato nella sua decadenza e nell'ostinazione dei suoi abitanti nella ricostruzione. E' caotica quasi quanto lo era Afghana prima che iniziasse la guerra. Chissà se la nostra casa è stata ricostruita.

Ma adesso, proprio adesso. Proprio dopo ciò che è successo poco più di una settimana fa, dopo ciò che mi hanno detto Nadja e Louise. Dopo ciò che mi ha detto mio padre, andare a lavorare sulle I.A. sembra quasi un modo ironico del destino per dirmi che il mio futuro non è nelle relazioni con il genere umano, ma con quello robotico.

Ma non mi importa di Nadja: è ancora una bambina e non credo diventerà mai più intelligente di quanto sia, forse per colpa di un'educazione troppo permissiva. Louise è mia madre, ma mentirei se dicessi che mi importa del suo giudizio.

Ma mio padre. Quando è venuto a trovarmi in hotel, il giorno dopo il litigio, l'ho guardato negli occhi e ho visto solo delusione. Non penso di avervi mai letto affetto, forse protezione, quando ero piccola, anche rabbia in alcune situazioni. Delusione mai.

Quello che mi ha detto mi ha colpito. Ho sempre pensato che la sua severità fosse stata una questione di amore paterno, il suo modo di spronarmi a dare sempre di più... il suo modo efficace per farmi dare sempre di più. Ma non ha detto questo. All'hotel, rifiutandosi anche di sedersi, ha detto poche frasi.

Ho una buona memoria, posso ripetere l'intera conversazione parola per parola.

Il suo sguardo distaccato vedendo la bottiglia di vino naturale di Jasonville sul tavolino basso della mia suite.

Il suo modo duro di dire: "ieri sei andata oltre ogni limite" e "la tua ambizione è diventata più grande della passione per il tuo lavoro", fino al "non so cosa c'è che non va in te, ma so che è così da sempre. Speravo che la terapia lo risolvesse, ma non è così: lo ha solo instradato in modo che sia più socialmente accettabile".

E ancora: "mi auguravo diventassi una persona migliore", "ciò che hai detto a tua sorella, in un momento di tale fragilità nella sua vita, è puro sadismo". "Hai un serio problema, Declan, che hai bisogno di risolvere. Ma adesso non ti aiuteremo più."

Sembrava Nadja, Nadja quando mi rinfacciava di avere ucciso la metà dei suoi animali domestici, quando era bambina, solo per poterli vedere morire. Nadja che mi diceva che amarmi era impossibile, frustrante e inutile. Come Nadja nostro padre. Come nostro padre anche Louise.

Ho urlato. Non mi capitava da molto, ma suppongo che sentirmi così attaccata mi abbia costretto a reagire. Gli ho detto che poteva vedermi come una pazza, se voleva, ma che tutto ciò che faccio è essere al passo coi tempi. Che gli ideali sono sorpassati, che il denaro detta i vincitori del domani e che io non voglio mai essere tra i perdenti. Che non mi chiuderò in un laboratorio come lui, ad invecchiare sulle provette, che il lavoro che faccio ha un valore che voglio riconosciuto e pagato. Gli ho detto che è solo un vecchio, che quando sarà morto nessuno ricorderà il suo nome. Che morirà presto, perché continuerà ad invecchiare velocemente, a furia di stare gobbo sui suoi studi. Che sono la migliore cosa che potesse capitargli, che non l'ha mai capito, che io andrò lontano e non sarà per merito suo.

Era furioso. Furioso e arreso. Ha detto che per lui ero morta ed è uscito.

Non li avvertirò del mio trasferimento, forse lo leggeranno dai giornali. Non avvertirò molte persone, comunque: non penso che a qualcuno interessi veramente.

Ma interessa a me.
E se c'è una cosa che ho imparato in questi anni, è che io mi basto perfettamente.

19/03/12

Family (part 1)


" Amare te, Declan, è impossibile, è frustrante e inutile. "


11/03/12

Controllo


Non ho mai posseduto una pianta vera e propria.

Fiori, perlopiù. Uomini che mi hanno sempre mandato fiori colorati di toni accesi ed eccentrici, dal profumo quasi nauseabondo. Appassiscono sempre in pochi giorni, quelli naturali. Quelli sintetici mi osservano dalle scrivanie, dai tavolini, dai davanzali delle finestre. Li tengo di solito finché non ricevo la persona che me li ha donati, facendoli buttare poi alla mia segretaria.

Questi hanno qualcosa di diverso. Hanno delle radici nella terra del vaso, innanzi tutto, e un aspetto più discreto. Suppongo richiedano un certo tipo di cura. Dell'acqua, della luce. Regalare una pianta autentica vuol dire regalare un impegno quotidiano.

C'è qualcosa, in quell'uomo, che trovo degno della mia attenzione. Non è uno status sociale, una posizione lavorativa particolare, un ascendente in qualche campo di mio interesse. Non è neanche un'affinità, una comunione di vedute: è distante da tutto ciò che mi compete, dal tipo di vita che ho scelto, dal mio approccio al mondo intero. Non è un interesse sentimentale.

Eppure c'è qualcosa. L'intelligenza, forse. Il fatto che lo trovi del tutto inadatto all'angolo nel 'Verse che si vuole ritagliare. Il potenziale sprecato mi infastidisce, quando non è quello di miei possibili nemici.

"Perché si controlla sempre?"
"Un mio errore potrebbe valere milioni di dollari"
"A volte la perdita del controllo apre le porte della libertà"
"Ma io non mi sento meno libera. Sto ottenendo esattamente ciò che voglio."
"Ha mai perso tutto, Declan?"
"No."


No. Mai.

06/03/12

112

Mi sono svegliata più tardi, più rilassata. Le stanze di Hall Point sono pressoché prive di arredamento, asettiche, impersonali. Mentre alcune persone le troverebbero scomode, io mi ci sento perfettamente a mio agio. Non ho mai amato l'arredamento, ho sempre preferito la funzionalità. Casa mia è tecnologia e vetri, metallo e codici. Il primo arredatore che mi fu consigliata, molto alla moda, aveva difficoltà a capire cosa volessi: il problema di chi si ritiene un artista senza averne il talento, è che difficilmente seguirà le istruzioni. Quando arrivò ad affermare che il soggiorno aveva palesemente bisogno di una statua di due metri raffigurante una giraffa di porcellana, lo licenziai e assunsi una ragazza timida, insicura, che realizzò tutto ciò che volevo esattamente come le spiegavo di realizzarlo. Divani neri, di pelle, dalle linee quasi quadrate. Nero, bianco e trasparenze: non esistono altri colori a casa mia.

Conosco il mio corpo. So quanto posso bere prima di iniziare a sentirmi più riflessiva, a volere cose che normalmente non vorrei. Non è il caso di ieri notte: è qualche giorno che so di cosa ho bisogno, cosa voglio. Sapevo anche che sarebbe successo esattamente in questa situazione.

Vivo senza dubbi, oggi con un po' meno di tensione sulle spalle. La calma mi è necessaria, soprattutto in questi momenti cruciali per la determinazione del futuro della Blue Sun e, conseguentemente, del mio. Ho tanto lavoro da fare, e si tratta di lavoro delicato, da coordinare con Evah Adams. La sua ambizione è grande, a volta le fa avere troppa iniziativa: va controllata.

Sono in grado di farlo. Sono in grado di portare avanti questa cosa come nessun altro potrebbe, perché sono tra il meglio che il mercato del lavoro può offrire. La consapevolezza è il primo passo, elimina l'umiltà inutile e permette di guardarsi senza veli - un po' come sapere che una supernova non è che elio e idrogeno, polveri e gas). So quali sono i miei punti deboli: il mio prestigio non è ancora solido, su Horyzon rimango una straniera e non sono mai stata sufficientemente in grado di adulare le persone, forse per un problema di orgoglio. la Adams mi serve a questo, a riempire i miei vuoti.

Se ci riuscirò, sarà una volta storica. E porterà il nome Khan impresso sopra.