29/01/13

eternal








« Lei cosa farebbe se avesse qualche anno prima del grande viaggio? Che sfizi vorrebbe togliersi? »


« Non saprei. Non ho mai considerato l'eventualità di morire. » ... « la verità è che, compiuti i diciotto anni, ho sempre vissuto esattamente la vita che volevo vivere. Correndo i miei pericoli, scalando i miei grattacieli. Dove sono è dove devo essere, e allo stesso tempo dove voglio stare. Non c'è posto nel 'Verse che preferirei. »


my brother and my sister don't speak to me / 
but I don't blame them / but I don't blame them

22/01/13

the universe we went through


"Non sei impressionata."

Derek Bark lo constatò con elegante rassegnazione. Osservò Declan sorridere divertita sugli spalti vuoti del più grande stadio del pianeta, guardando in maniera piuttosto distratta il campo di pyramid più in basso su cui si giocava un'amichevole tra Capital Titans e Liu Bei Shooters. Alle undici e mezza di sera. Solo per loro. 

"Per curiosità: come li hai convinti a giocare a quest'ora?"
"Il presidente dei Titans è un mio caro amico. Per gli Shooters... ho promesso di comprarli". L'uomo sospirò e si sedette compostamente sul sedile, mentre Declan rimase ancora un po' con i gomiti poggiati sulla balaustra. Indossava uno splendido cappotto nero che le lasciava scoperte le gambe dalle ginocchia in giù, e gli occhi chiari erano resi più intensi da un cenno di trucco più scuro. Si prese qualche istante per osservarla, contando alla rovescia i vari appuntamenti che le aveva strappato fino a quel momento. Prima dello stadio c'era stato l'acquario dove si erano fatti calare in una vasca di squali, protetti da una gabbia in titanio inossidabile. C'era stata prima ancora la serata in cui corruppe abbastanza persone da riuscire a portarla a vedere, a museo chiuso, la migliore fatica del più celebre pittore della pre-colonizzazione: "L'Universo che attraversammo" di Peter Goeble. Le era sembrato di vedere in lei un certo gusto nello sfiorare con le dita la tela nuda, ma nient'altro. Al vero e proprio primo appuntamento, l'aveva portata piuttosto ingenuamente sulla sua barca di quarantasei metri, a fare una romantica cena al largo di Capital City. Aveva scoperto solo più tardi come, nell'allontanarsi dalla costa, lei avesse speso due abbondanti minuti a calcolare tramite il c-pad le coordinate esatte del loro spostamento per poi comunicarle al suo autista. 

"Pazienza: avrei comunque dovuto comprare una squadra di pyramid, prima o poi. E' una delle poche stravaganze da milionario che mi manca" la prese con filosofia. 
"Hai già in mente dove andare la prossima volta?"
"Chi ti ha detto che ci sarà una prossima volta?"

Declan rise senza guardarlo neanche. Andò a sedersi accanto a lui, accavallò le gambe ed estrasse dal cappotto il portasigarette d'argento koroleviano. Se ne prese una e una la offrì a lui. Le accesero con lo stesso zippo. Profumavano di mentolo in maniera delicata, diventando più piacevolmente brucianti nella gola. Lei continuò a guardare con poco interesse la partita, seppur qualcosa negli occhi suggerisse una certa soddisfazione. Derek rimase a guardarla con una certa ostinazione.

"Dovrei riflettere più attentamente sul perché ti lasci importunare da un vecchio come me"
"Deve essere la posizione sociale di rilievo"
"E i soldi"
"Chiaramente, anche i soldi"
"E sono un vecchio tutto sommato ben mantenuto"

Declan voltò il capo e lo passò in esame dalla testa ai piedi, valutando. Dei sessantadue anni che aveva, ne dimostrava qualcuno in meno. Il tempo lo aveva stempiato in maniera ordinata, lasciandogli una fronte molto alta e dei capelli ingrigiti. Le spalle larghe e il fisico slanciato facevano intuire una gioventù passata a praticare il nuoto agonistico, mentre le rughe davano al viso un aspetto solido. In effetti ogni cosa in lui riusciva a dare una sensazione di fermezza, pur senza renderlo duro. Aveva la scioltezza tipica di chi tratta il denaro come un piacevole effetto collaterale del proprio lavoro, senza darsene mai troppa pena. Declan cercava ancora di stabilire se fosse veramente così o se si trattasse soltanto di una posa ben studiata. 

"Dicono che la tua CCN stia per mandare un'inchiesta terremoto sulla Column Electronics"
"Dicono?"
"E' così?"
"Ecco cosa mi era sfuggito: le informazioni..."

Sorrise sfacciato. Era abituato a schivare quel tipo di domande da tempo immemore. Del resto non crei il primo monopolio mediatico del Core senza che qualcuno, presto o tardi, ti chieda qualche piccola anteprima sulle cortex news del giorno dopo. Aveva iniziato dall'informazione: venticinque anni prima Derek Bark era l'anchorman del primo programma cortex di Horyzon. Finché una lite con la produzione l'aveva obbligato a lasciare lo studio e contarsi i soldi in tasca. A quel punto aveva due possibilità: mettere tutto in banca e cercarsi un altro lavoro, oppure investirli. Decise di investirli in attrezzature di holoripresa e in un paio di satelliti in grado di trasmettere a Horyzon, Xinhion e New London. Propose un format innovativo che attrasse numerosi giovani. Iniziarono a lavorare per lui gratis, solo per far parte di ciò che stava costruendo. Il primo giorno di trasmissione fu un fallimento. Il secondo andò meglio. Dopo due mesi di alti e bassi, una docu-inchiesta sulle condizioni di vita su Meili portò un boom di ascolti che accese l'attenzione degli investitori. Nel giro di dieci anni il canale si espanse fino ad acquisire sempre più reti minori, diversificando la sua offerta. Divenne la Central Cortex News. Agli albori 2505 i suoi redattori furono i primi a caldeggiare pubblicamente un intervento armato contro i pianeti del rim che si opponevano all'inevitabile avanzata alleata. La rete cortex venne invasa nel giro di pochi mesi da documentari sui modi barbari e incivili di vivere nel rim, mentre i programmi giornalistici di approfondimento presero a spiegare con logica schiacciante i motivi per cui i rimmer costituivano un pericolo per il quieto vivere del 'Verse intero. Quando nel 2506 scoppiò la guerra, la CCN fu l'unica corporation mediatica a vedersi quasi raddoppiare i finanziamenti statali, mentre il resto dell'informazione e dello spettacolo vedeva bruschi tagli a vantaggio delle spese militari. E mentre il resto del Core si accontentava di pubblicare i bollettini militari giunti dal fronte, la CCN diventò pressoché l'unica ad inviare i suoi giornalisti nelle zone di guerra. Triplicarono lo share, i prezzi delle pubblicità salirono del centotrenta percento. Mentre milioni di soldati morivano al fronte, Derek Bark (che era stato ai suoi tempi uno studente scarso con un voto di laurea mediocre) veniva invitato nelle Università a parlare di news-managing ed etica giornalistica. Finita la guerra, si era ritrovato nelle mani un impero, incorniciato da un'estrema liquidità.


Che amava chiaramente scialacquare.


"Che ne dici di un giro in elicottero sulla città?" propose vago, sedendosi più comodo sul sedile.
"L'ho fatto due settimane fa"

Derek sospirò. Allungò un braccio sullo schienale del sedile di lei, senza per questo toccarle la schiena. Sembravano entrambi rilassati, privi di ingessature. Lei appena più sostenuta, nella maniera che hanno alcune donne per comunicare una certa severità d'intenti. Eppure aveva quel sorriso velato negli occhi. Lui era un uomo abbastanza navigato da riuscire a capire quando le sue attenzioni erano apprezzate, e gli sembrava che Declan Khan non rifiutasse le attenzioni di nessuno. Era al centro del suo mondo e, per qualche motivo, doveva essere profondamente convinta di essere anche al centro del mondo di tutti gli altri.

"C'è qualche città che ti piacerebbe vedere? Qualche megalopoli che ti manca?"
"Ho vissuto in quasi tutte le capitali del Core"
"Quali?"

Lei sollevò appena il mento, osservando senza apparire particolarmente avvinta uno splendido assist, più giù, sul campo.

"Sono nata a Lòng City e ho vissuto a Jutòu fino ai quattordici anni. Ci siamo poi trasferiti su Berishan, ad Afghana. Sono andata a studiare a New London, ho fatto l'internship a Manhattan e sono stata assunta di nuovo a Xinhion. Sono stata trasferita a Capital City per qualche mese, poi assegnata ad un progetto a Sadrany, quindi di nuovo a Capital City. D'estate usavamo andare a Corona, e i miei genitori vivono attualmente a Gandhi."
"Come sono?"
"I miei genitori?"
"Sì."
"Ordinari."

Derek si chiese cosa intendesse Declan Khan per ordinario.

"Lo sono anche io?" impavido. Sorrise anche Declan, ma non rispose alla domanda.

"Sai, potresti semplicemente chiedermi cosa mi piacerebbe fare" osservò, inoppugnabile.

Lui la guardò ancora un po'.

"No. Prima o poi lo troverò" disse senza impazienza. Si accese un'altra sigaretta e tornò a guardare la partita.




"The Universe We Went Through", by Peter Goeble



16/01/13

one year older


Registrazione messaggi vocali.
Segreteria di miss Declan Khan.
Giorno quindici gennaio duemilacinquecentoquindici.
Si prega di lasciare un messaggio dopo il bip.

Bip.

ore 13.43
Pronto, Declan? Sono Louise. Tua madre, ricordi? So che non richiami perché ce l'hai ancora con noi, ma Declan, è passato quasi un anno ormai. Ci sono molte cose di cui vorrei parlarti, e di cui non posso dirti con una cortex wave. Alcuni nostri conoscenti sono morti nell'attentato al Country Club a Saint Andrew, lo sai? Tua sorella non si fa vedere da mesi, e manda solo ogni tanto messaggi sintetici per comunicare che è ancora viva, senza farci sapere dove si trovi o cosa stia facendo. Tua cugina, Jordan, è stata promossa a capitano, ed è il più giovane comandante di vascello donna che la sesta flotta abbia mai nominato. Stiamo costruendo una piscina. Tuo padre è... cupo, e non è più lo stesso da quando ha litigato con te. Non mi ha mai detto che vi siate detti quando è venuto a trovarti, ma non credo che ormai importi di nuovo. Si era un po' illuminato quando Dylan ha ripreso a frequentarlo, ma so che di recente ha avuto una discussione anche con lui, non so bene a che proposito. Mi farebbe piacere se riuscissi a venirci a visitare. Quando vuoi, come sempre. Per favore, richiamami.

ore 14.20
Miss Khan, buon pomeriggio, mi scuso per il disturbo. Mi chiamo Elliot Liebermann Sacks, sono un redattore per Channel Four. Mi sto occupando di un approfondimento scientifico sulle ricerche sulle Intelligenze Artificiali, e mi è giunta voce all'università che la Blue Sun potrebbe avere notizie interessanti da comunicare al pubblico. Mi è stato fatto capire che si è occupata di A.I. già in passato, e sarei davvero felice se potesse concedermi un'intervista, anche non più di un'ora del suo tempo. Attendo notizie dalla sua segretaria, sono disponibile tutta la settimana e posso raggiungerla ovunque su Horyzon. Buon pomeriggio.

ore 15.03
Miss Khan, è la segreteria di mister Jonathan Carter. Come le avevamo anticipato l'appuntamento per la holo-conferenza di tutti i CEO Blue Sun è fissato per giovedì alle ore sette e trenta di mattina, orario di Capital City. Le verrà inoltrato l'ordine del giorno e il modello per la relazione trimestrale delle attività e dei guadagni. Le auguro buona serata.

ore 15.30
Lane, sono Jamie. Senti, ho parlato con tuo padre, e davvero posso garantirti che non sapevo niente del testamento. Mi spiace per la situazione in cui ti sei trovata. Ad ogni modo, ho parlato a lungo con lui e penso che io e te dovremmo vederci e discuterne da adulti. Richiamami.

ore 16.21
Salve, chiamo miss Declan Khan dal Summit Medical Center di Siskiyou, su Horyzon. E' registrata come contatto di emergenza di sua sorella, Nadja Khan. Miss Khan ha ingerito un'eccessiva dose di sonniferi, ieri sera, e ha rischiato di entrare in coma: fortunatamente la donna delle pulizie dell'hotel in cui si trovava l'ha trovata. Adesso è presso il nostro ospedale. E' stata sottoposta ad una lavanda gastrica, ma vorremmo parlare della sua situazione medica con un parente. La prego di richiamarci non appena riceverà il messaggio.

ore 16.35
Miss Khan, la Foster Enterprises si è detta interessata all'acquisto di alcuni spazi pubblicitari lungo la pista della Sky Race, ma l'amministratore delegato richiede di parlarne direttamente con lei. Ha dato la sua disponibilità per domani, ora del tè, presso il Tea Jiuba su Carpathia Square. Mi faccia sapere se devo prendere l'appuntamento.

ore 17.05
Buon pomeriggio, sono il dottor Li. Ho messo nei nostri database le varie valutazioni su tutti i concorrenti che ho avuto modo di visitare fino ad ora. Direi che non ci sono grossi problemi, se non per un mister... uhm, attenda un secondo, dove... eccolo, mister Jason Carr, un chiaro pazzo suicida che ho già segnalato alle autorità come potenzialmente pericoloso. Arrivederla a presto.

ore 18.30
Miss Khan, chiamo di nuovo dal Summit Medical Center di Siskiyou, su Horyzon. Non so se ha ricevuto il nostro precedente messaggio, ma sua sorella Nadja Khan è ricoverata presso il nostro ospedale dopo quello che crediamo esser stato un tentativo di suicidio. La prego di richiamarmi.

ore 18.40
Miss Khan, buonasera, sono il dottor Harberg. Sono veramente mortificato, ma temo di dover cancellare la seduta che avevamo in programma per venerdì sera, sono sorti alcuni problemi personali e... ma se desidera potremmo anticiparla a domani sera, verso diciamo le otto, oppure possiamo metterci d'accordo per la prossima settimana. Mi faccia sapere, e le chiedo ancora scusa. Buona serata.

ore 18.45
Buonasera miss Khan, sono Adeline Gallher, la chiamo dalla casa d'aste Christie's. Vorremmo sapere se sarebbe per lei un problema posticipare la consegna dello shuttle a dopodomani mattina, invece che domani: la compagnia di trasporti a cui ci rivolgiamo sta sperimentando alcune difficoltà di natura tecnica purtroppo insuperabili nel giro di dodici ore. Aspetto una sua gentile risposta, e mi scuso per il disturbo.

ore 20.00
Salve, miss Khan. Le volevo chiedere se per il concerto dell'orchestra sinfonica di Capital City preferisce questo sabato sera o il prossimo, glieli sto prenotando come richiesto. A risentirci, buona serata.

ore 21.01
Declan, buonasera. Sono Derek Bark. Ho la presunzione di pensare che si ricordi di me: ci siamo conosciuti a quello caratteristico locale jazz, ho chiesto il suo numero al nostro amico comune, Daniel Chay. Spero non la consideri un'invadenza da parte mia, ma volevo dirle che mi ha fatto onestamente piacere parlare con lei, e che non mi dispiacerebbe replicare. Sabato sera, diciamo? Ho prenotato in un posto che credo potrebbe piacerle. Attendo una sua conferma.

ore 21.12
Declan, sono sempre mamma. Alla fine mi sono dimenticata di dirti l'unica cosa per cui avevo chiamato: tanti auguri, tesoro.

13/01/13

you think I'm a freak



7 Maggio 2492, Jutòu, Xinhion.

Declan Khan era una bambina di undici anni con la pelle chiara e i capelli rossi tagliati in un caschetto ordinato. A braccia conserte e con lo sguardo assente, attendeva che suo padre uscisse dall'ufficio del preside. Passava gli occhi distrattamente sulla finestra da cui si intravede un prato ordinato, l'erba geneticamente modificata per non crescere mai più di quattro centimetri, seppure l'amministrazione avesse votato a favore dell'acquisto di un tosaerba automatico che la teneva rigorosamente all'altezza di tre virgola cinque centimetri. Il verde erba - un verde erba così erba che neanche l'erba cresciuta spontanea in natura aveva mai avuto quel colore - era incorniciato dal candore maestoso del marmo. La sua scuola era così, di una bellezza artificiale e sofisticata. Un po' come le famiglie dei ragazzi iscritti.

Alban Khan, un metro e novantuno e i capelli ancora neri, uscì dall'ufficio con un'espressione scura e severa incastrata negli occhi. Declan lo seguì in macchina senza dar segno di provare molto interesse per il motivo di quell'umore, e quando entrò nell'abitacolo lo fece sedendosi al posto del passeggero, proprio accanto al guidatore. Iniziarono a parlare solo dopo il settimo chilometro.

"Sono fuori di me, Declan. - esordì piano. Tendeva ad abbassare la voce quando era (appunto) fuori di sé - non ho idea da chi tu possa aver ripreso questo atteggiamento, né chi possa avertelo insegnato."

Declan non parve ferita. Assente, si era poggiata con la tempia contro il finestrino e osservava il paesaggio urbano che scorreva ai lati della macchina, intenta a occupare il tempo contando i pedoni. Novantaquattro. Novantacinque. Non esisteva un angolo di Jutòu che non fosse stracolmo di gente.

"Ciò che hai fatto non ha giustificazioni. Questa tua compagna di classe, Ashanti..."
"Ashani"
"Ashani. I suoi genitori vogliono farti espellere, lo sai? Ti rendi conto di quanto sia grave? Ti rendi conto di ciò che hai fatto?"
"Io non ho fatto niente"
"Non mentirmi!"

Si mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio e sospirò.

"Perché ce l'hai tanto con lei? Santo cielo, Declan: le falsità, la vernice nello shampoo, gli animali morti nell'armadietto..." gli si tagliò la voce nella gola: anche solo a pensarci sentiva il petto stringersi in una morsa.
"Non hanno prove"
"Tutte le ragazzine hanno detto che le hai istigate tu. Che... per dio!"

Alban Khan imprecava con un tale trasporto di rado. La macchina ebbe uno sbalzo lieve di lato, tornando subito in carreggiata. Lui scosse il capo e iniziò la manovra per accostare. A macchina ferma e con un po' di calma recuperata tornò a voltarsi verso la giovanissima figlia.


"Insomma... che ti ha fatto?"


Declan sembrò riluttante. Per un attimo.


"Faccio quello che mi dite voi"


Alban sbatté le palpebre per un attimo senza parole. "Quello che ti diciamo noi?"

"Due anni fa: Declan non fa amicizia, Declan non cerca la compagnia dei suoi coetanei, Declan ha bisogno di socializzare. Stiamo studiando le guerre, a storia. Sai cosa mette insieme i pianeti? I nemici comuni. Prendi un nemico, gli altri si stringono attorno a te contro il nemico comune. Perché devo diventare io come gli altri? Perché gli altri non possono diventare come me?" 

Mentre parlava incassava sempre di più la testa tra le spalle. Aveva le spalle tese, le sopracciglia vicine, gli occhi inquieti di quando si sentiva inadatta. Alban aveva imparato a riconoscere i segni di una crisi prima che scoppiasse. Sospirò a fondo per essere calmo e trasmettere calma. Riportò alla memoria il libro che lo psicologo infantile aveva dato da leggere un anno prima a lui e a sua moglie. Che diceva?

"Declan, noi ti vogliamo bene a pre..."
"A prescindere di tutto. L'ho letto anche io, il concetto chiave nel libro. Pensate che sia strana, che sia un freak. Ma è perché non guardate attentamente. Basta far credere alla gente che sai ciò che stai facendo, e quella ti segue senza batter ciglio. Tutti hanno fatto qualcosa. Il lassativo nel cibo, la vernice nello shampoo, la rana vivisezionata nell'armadietto... io non ho toccato niente. Non ho fatto niente. Vuoi che io diventi come gli altri, perché pensi sia un freak. Guarda adesso: sono tutti come me, sono tutti freak. E' bastato fargli credere che fosse normale."

Non era prima volta che la sua lucidità di vedute lo sorprendeva. Pensò a come articolare una risposta. Ma in realtà non c'era una vera domanda a cui rispondere.

"Noi non pensiamo che tu sia un freak..."
"Non mentirmi!" gli fece eco lei.
"Declan, ascoltami..."
"Non mentirmi!"

Si può dire che Alban Khan non fosse un uomo affettivamente reattivo. Non aveva mai gestito da solo una di quelle crisi e, diciamolo, non era neanche tanto bravo ad evitare che accadessero. Tese le mani verso la ragazzina tentando di afferrarle le braccia, ma ricevette di rimando una scrollata brusca e un grido sorso, continuo, animale. L'ira, tra le proto-emozioni, è forse la più intensa e la più semplice. La vide prendere il possesso di sua figlia, farle battere sul finestrino e farle lanciare il suo zaino contro il parabrezza. La vide prendere a calci il cruscotto e diventare della stessa tonalità dei capelli, e agitarsi in una convulsione irrazionale e disperata, e incontrollabile, e sconvolge, e lui rimase sconvolto e stupefatto dall'idea che un corpo così piccolo potesse contenere tanta voce e tanta rabbia. Non disse niente. La lasciò sfogare per una quantità di tempo indefinita, lunghissima, colmo di orrore. 

Si sentì il cuore in gola. Era una sensazione di cui non si sarebbe mai più liberato.

10/01/13

don't you feel anything? anything at all?



"Sembra turbata"

Declan non rispose. Era in silenzio da diversi minuti, ormai, occupata a guardare il cactus artificiale sul davanzale della finestra di un ampio studio arredato con colori caldi, accoglienti. Il suo terapeuta ticchettò  impercettibilmente i polpastrelli sul bracciolo della poltrona.

"E' pelle sintetica"

Il terapeuta sollevò le sopracciglia. Ci mise un po' a capire che si riferiva alla poltrona.

"Immagino di sì..."
"In verità ogni cosa è sintetica, nei mondi non rurali. Se non sintetica, artificiale. Quello... - puntò con delicatezza un indice sottile verso il cactus - è un essere vivente. Ha bisogno di acqua, anche se raramente, e luce solare, altrimenti morirebbe. Allo stesso tempo è artificiale, perché non è nato naturalmente. La loro versione originale nelle sue condizioni naturali fiorisce, lascia i semi... si riproduce così. Questi non sono in grado di riprodursi, né di fiorire. Sono viventi, ma vengono creati in provetta e cresciuti in serre dove anche i terreni sono sintetizzati chimicamente. I concimi, poi, chiaramente."
"Cosa intende dire?"

Declan scosse leggermente il capo. Rimase a guardare il cactus per un po', poi distolse lo sguardo.

"Viviamo in un mondo artificiale, tutti noi. Non c'è niente che sia nato in natura. Non un albero dell'Unification Park, non una pianta delle terrazze verdi né un animale dei suoi parchi biologici. Siamo noi a crearli, noi abbiamo creato la scienza che ci permette di popolare i nostri giardini con insetti, microbi, funghi quasi reali, quasi funzionanti come gli originali. Potrei uscire da qui, camminare per ore da un capo all'altro della città e non trovare una singola cosa che sia nata in natura. Abbiamo fatto tutto noi, ma per qualche motivo oggi preferiamo il cibo naturale, la carne strappata dalle ossa di un agnello cresciuto interamente in un utero naturale e venuto al mondo tramite parto tradizionale. Cosa c'è di tanto meraviglioso? Cosa c'è di tanto apprezzabile nell'essere in balìa delle carestie e degli umori della natura? O nell'essere in balìa di tempeste emotive che annullano ogni forma di razionalità?"
"Spesso non è una scelta, miss Khan. Dominare le emozioni è qualcosa che poche persone sono in grado di fare: sono qualcosa di dirompente, totalizzante. Lei... può immaginarlo?"

Declan rise piano, amareggiata, e scosse appena il capo.

"Posso fumare?"
"Sì, certo. Attivi il depuratore, però"

Attivò il depuratore e poi si accese la sigaretta.

"Mio padre ha deciso di diseredarmi"
"..."
"E' una notizia recente. La mia parte andrà al figlio del fratello defunto di mio padre. Un giovane idealista sagace e impaziente, che vive nei sobborghi di Capital City in un monolocale che puzza di sigarette economiche"
"Perché pensa che abbia preso questa decisione? Da ciò che mi aveva detto, la situazione tra voi due non appariva così... drastica"
"A quanto pare lo è a sufficienza da farmi disconoscere come figlia"
"Non penso sia quello che stia facendo. Ha considerato che suo cugino potrebbe aver bisogno dell'eredità più di lei? Forse suo padre ha considerato che lei non avrà bisogno, in futuro, di quei soldi"
"Non sono solo soldi. Si tratta delle case, del patrimonio. Conosco ciò che mi spetta... che mi spetterebbe. Abbiamo dodicimila libri digitali, settecentottantasei volumi cartacei di valore inestimabile. Un orologio da polso risalente alla prima colonizzazione, passato da padre in figlio per cinque secoli. Sono la prima primogenita Khan che non lo avrà. E' una scelta molto personale... è ovvio. Non mi considera più parte della famiglia"

Continuò a fumare. In maniera del tutto inspiegabile, le fece male la testa. L'ultima volta che si era ammalata era stato sei anni prima.

"Immagino lei abbia un'idea di ciò che suo padre disapprova di lei..."
"Mio padre disapprova me. In un certo senso, è quasi liberatorio vedere come l'abbia riconosciuto a scanso di ogni possibile equivoco. Non approva il lavoro che ho scelto. Non capisce il mio modo di vedere le cose, né come..."
"Vada avanti"
"Ho un'ottima memoria"

"Lo so"
"Provarono a farmi diagnosticare l'Asperger, quando avevo sei anni. Quando l'esito fu negativo sembrò quasi insoddisfatto. Come se non riuscisse a capacitarsi di come potessi stare bene, eppure essere così. Allora avevo bisogno di precisione, di ordine. Uscire anche il minimo dalla routine mi faceva avere attacchi di rabbia. Una volta tirai una mazza da polo contro una finestra, in villeggiatura a Corona. Quando nacque Nadja, non mi lasciavano mai sola con lei. Mi hanno fatto credere per tutta una vita che avessi un difetto di fabbrica. Sono dovuta crescere per capire che potevo sfruttarlo, che era ciò che mi avrebbe concesso di arrivare più in alto degli altri. Che non avevo necessità di sentirmi mortificata, solo perché ero diversa"
"Capita che ci diciamo di essere diversi per giustificare una serie di comportamenti non funzionali mentre..."
"No, lei..."
"... mentre invece è solo un modo per negare che richiedono la nostra pazienza e il nostro lavoro per essere modificati"

Declan scosse il capo con più vigore, sfiorandosi la fronte con due dita e ridendo piano.

"No, lei non capisce: sono diversa. Il mio cervello funziona diversamente. Le connessioni tra l'amigdala e la corteccia prefrontale ventromediale sono in quantità minore rispetto allo standard. Sono differenze strutturali e funzionali. Faccio uno scan totale ogni anno da quando ho scoperto che fosse possibile. Non sono malata. Non ho niente di disfunzionale. Sono strutturalmente migliore."
"Lei... ritiene di non avere niente che non va, miss Khan?"
"Esattamente"
"Dice di non ritenersi malata, ma di ritenersi perfettamente funzionale. Sana."
"Sì"
"Mi permetta una domanda"
"Chieda pure"
"Lei segue la terapia ormai da circa... venti anni"
"E' corretto"
"... 
Perchè?"

07/01/13

Jamie (2)


Al sesto piano di un grigio palazzo dei sobborghi più periferici di Capital City, Dylan Jamison Khan dormiva in un letto a muro con un piede sfondato, infilato tra delle lenzuola che non lavava da un mese abbondante e calato in un sonno profondo. L'ostinato trillare del campanello lo trovò vestito sotto le coperte, seppur senza cintura e con la camicia tutta sgualcita. Raggiunse la porta imprecando a mezza voce contro chiunque lo stesse disturbando alle undici di domenica mattina ma, quando occhieggiò dallo spioncino, rimase onestamente perplesso. 

Dall'altra parte c'era Declan Khan. Lei stessa aveva dovuto scavalcare un paio di ostacoli lungo il cammino - nella fattispecie due bambini lerci che giocavano nel bel mezzo del corridoio come cani sciolti -, e ora era ritta davanti alla porta nel suo bel cappotto grigio antracite e con le mani giunte davanti al ventre, in stoica e paziente attesa. Quando Dylan aprì la porta, sbattendo le palpebre un po' incredulo, lei gli sorrise.

Dylan aveva trent'anni, ma a parte un filo di barba sfatta era identico a dieci anni prima, più o meno l'ultima volta in cui lui e sua cugina si erano visti. I capelli di un nero lucido erano della madre, mentre gli occhi azzurri e la linea del viso che si stringeva all'altezza del mento testimoniavano i caratteri genetici dominanti dei Khan.  

"Posso entrare?"

Il ragazzo fece un passo di lato e allargò platealmente un braccio, invitandola ad accomodarsi. Non era tipo da imbarazzarsi per il proprio disordine, ma con il tallone spinse sotto divano un paio di mutande randagio. 

"Ti sei trovato un posto... caratteristico"

Chiaramente era un eufemismo. Innanzi tutto, era un monolocale. In secondo luogo, era tutt'altro che luminoso, e aveva un fastidioso odore di chiuso. Infine, il quartiere era noto per essere quello a più alto tasso di criminalità di tutta la città. Si sarebbe detto che il co-autore di uno dei programmi di informazione più celebri nella regione avrebbe dovuto riuscire a concedersi un posto quantomeno decente, ma lui voleva essere così: tutti quelli che l'avevano conosciuto un po' lo sapevano. In fondo, anche Declan.

"Posso offrirti qualcosa? - chiese lui guardandola con un disagio piuttosto vago. Ricevette un sorriso che sottintendeva come non avrebbe mai accettato niente che si fosse trovato in quella casa. Si passò una mano sulla faccia e tirò su col naso, ancora onestamente assonnato - non ci vediamo da un po', no?"

"Ultimamente recuperare rapporti familiari con persone in grado di notare l'ovvio sembra il leitmotif della mia esistenza" commentò lei con una delicatezza poco interessata. Analizzò il monolocale con attenzione, quindi selezionò una sedia accettabile e vi si accomodò a gambe incrociate, rilassando i muscoli. Diede a Dylan la possibilità di studiarla per un po'. Era una donna diversa da quella che ricordava, almeno in superficie: così come in gioventù appariva sempre fuori posto, adesso il giovane Khan notava una serie di movimenti e rituali atti a mettersi prepotentemente a proprio agio anche in un ambiente che doveva sembrarle così terribilmente ostile. La capacità di osservare... forse anche quella era un tratto genetico. Nonostante ciò, continuava a navigare perduto tra sonno e ignoranza: che ci faceva a casa sua?

"Allora. Come te la passi, Jamie?"

"Mh... - sorrise in maniera sfuggente, arricciando perlopiù le labbra di lato. Non era molto alto, e nessuno l'avrebbe definito propriamente bello: sembrava quasi che la pelle gli si tendesse su ossa troppo grandi, adatte a sostenere un peso ben maggiore dei suoi settantatré chili scarsi. Nonostante ciò, aveva qualcosa. Si avvicinò a un quadrato di scrivania addossata contro un muro coperto di ritagli di articoli e foto, collegati tra loro con fili sottili, di colori diversi. Cercò tra le carte. - gli unici che mi chiamano ancora Jamie siete tuo padre e... voi, della famiglia. Della famiglia di papà - trasse una sigaretta sgualcita e se la infilò tra le labbra, ciancicando una risposta mentre l'accendeva - sto bene, grazie. Lo dico ad un sacco di gente, ultimamente"

"Sì, ho saputo di Darcey. Le mie condoglianze. Te le avrei fatte prima, se ne fossi stata a conoscenza"

"Ne sono sicuro. Alban mi ha detto della vostra lite"

Diretto come un treno, tanto da farle sollevare le sopracciglia in un moto di sorpresa molto lieve, che a lui non sfuggì. Uscire dagli schemi era la sua attività preferita fin da bambino. Ne traeva una gioia pulita e infantile, ed era la qualità che lo rendeva un ottimo giornalista così come un pessimo sottoposto: l'unica cosa certa era che Dylan Khan non avrebbe mai fatto ciò che da lui ci si aspettava. Giocare d'anticipo con lui era impossibile, vedere oltre le sue azioni anche. Dietro il viso chiaro da adolescente si celava l'imperscrutabilità scritta nei suoi geni, combattuta ogni giorno da qualcos'altro, qualcosa di arrogantemente affascinante. Declan lo osservò espirare il fumo e guardarla in attesa impaziente, chiedendosi che cosa fosse.

"Cosa ci fai qui, Lane?"

Declan sorrise. Composta, già a proprio agio, guardava il suo interlocutore con un'aggressività feroce ed elegante. "Tu e Nadja siete gli unici a chiamarmi Lane. - l'eco di lui poco prima - la domanda esatta sarebbe cosa ci fai tu, Jamie. Sparisci per anni mandando solo holo-auguri per l'Exodus Day, ma torni non appena vengo - assottigliò lo sguardo - scortesemente invitata a non presentarmi più nella dimora paterna. Stai circuendo mio padre?"

Ne studiò attentamente l'espressione del viso: lo sconcerto sembrava genuino. Come una tigre appostata dietro i cespugli, Declan sembrava pronta ad afferrargli la giugulare tra i denti. Voleva dare l'impressione di essere a caccia. Dylan colse come, invece, stava proteggendo il territorio che considerava suo.

"Circuendo tuo padre...?" scandì cautamente.

"Non fingere con me, Jamie"

"Non so di cosa tu stia parlando"

Scrollò mezza sigaretta nel posacenere, più o meno: non lo guardò e lo mancò di buone due dita senza nemmeno rendersene conto. Il monolocale era così angusto che il fumo l'aveva già riempito. Lei non ne apparve infastidita.

"Non sai niente del testamento" si assicurò lei, scettica.

"Quale testamento, Lane?"

Notò in lui qualcosa di particolare, una vibrazione sotto i muscoli delle spalle infastidita. Ripercorse a mente le proprie parole con la precisione di una registrazione. Era una reazione alla parola testamento. Valutò le variabili, valutò l'inclinazione delle sue labbra e quanto le palpebre si fossero assottigliate. Aveva avuto un moto di stizza. E ad un certo punto le fu chiaro in cosa risedesse il fascino di Dylan: era un idealista. Accennare a qualcosa di tanto venale come un testamento lo aveva irrigidito come se fosse alle sue orecchie qualcosa di repulsivo. Quella sfacciataggine adolescenziale che si portava addosso era quella di qualcuno convinto che nell'universo esistano ancora valori assoluti, un bene supremo da servire, un destino personale da compiere.

Mentre ancora lui la osservava, Declan si alzò in piedi con grazia e si sistemò il cappotto. Senza aggiungere altro uscì dalla porta di casa sul corridoio, superò i due bambini lerci ancora occupati ad intrattenersi con giocattoli rotti, e tornò senza fretta in strada, dove il suo autista la aspettava.


06/01/13

Jamie



Oppilana Nerhu era una donna sui trentacinque anni ancora attraente, con fianchi e seni ampi che stringeva in abiti aderenti di tessuti spessi. Si era laureata senza lode in giurisprudenza, e si diceva che a breve sarebbe diventata socia di un piccolo studio legale per cui lavorava ormai da anni, specializzato perlopiù in divorzi milionari e cause sull'eredità. Aveva chiamato Declan più volte prima di riuscire a strapparle un appuntamento, e adesso la guardava con un sorriso tenue affacciato da dietro il menu rilegato che fingeva di sfogliare. 

"Mi spiace di non poterti dedicare più tempo, purtroppo ho solo quaranta minuti prima di un appuntamento di lavoro - a Declan piaceva chiarire le cose subito. Per qualche motivo in famiglia si credeva che lei e Oppilana avessero un rapporto speciale, ma non era così. Si limitavano ad aggiornarsi alle cene di famiglia sui movimenti dell'alta società del Core: una serie di informazioni che le erano estremamente utili per pianificare i rapporti con quella stessa alta società di cui il suo prestigio non poteva fare a meno - la tua chiamata mi ha sorpreso: non ci vediamo da molto"

"Ed era ora di vederci, non trovi? - Oppilana poggiò il menu sul tavolo, evidentemente poco interessata. Aveva larghi occhi neri e capelli color cioccolato sciolti sulle spalle in maniera un po' disordinata, ma sensualmente affascinante - ho visto tuo padre di recente, e mi ha detto che non ti sente da un po'."

"E così - rispose Declan senza problemi, ignorando la cameriera che attendeva disperatamente un suo cenno per avvicinarsi - il lavoro mi tiene molto impegnata, e un viaggio a Gandhi è qualcosa che non posso permettermi: ho tempi piuttosto stretti, scadenze serrate..." lasciò sfumare la frase in altre scuse poco fantasiose, pronunciate con nessuna convinzione.

"Anche Nadja è scomparsa da un po', da qualche mese. O meglio, non torna a casa, mentre non si fa sentire da un paio di settimane. Per caso l'hai sentita?"

Declan sollevò appena le sopracciglia, sospirò e scosse lievemente il capo: "non ne so niente - rispose, incapace di nascondere una certa impazienza - mi hai contattato per chiedermi di Nadja?"

Oppilana pose fine alle sofferenze della cameriera, richiamandola a sé con un gesto. Ordinò semplicemente un tè, e Declan fece lo stesso. 

"Tuo padre mi ha chiesto di non dirtelo, Declan, ma credo che dovresti saperlo. - era evidentemente riluttante - ti ricordi di Dylan?"

Ovviamente si ricordava. Non lo vedeva da anni, ma l'immagine di un ragazzo dal fisico sottile e nervoso le tornò alla mente chiara anche nei più minimi dettagli. Dylan Jamison Khan era suo cugino di primo grado, per l'esattezza il figlio del fratello di suo padre: Jamison Khan Senior. Jamison era morto quando il suo unico figlio aveva solo sette anni e, da quel momento per diversi anni a venire, Dylan (o Jamie come veniva più comunemente chiamato in famiglia in memoria di suo padre) iniziò a passare i lunghi mesi delle vacanze estive nella casa di Corona dei Khan, insieme a lei e a sua sorella. Era di quattro anni più piccolo di lei e aveva legato perlopiù con Nadja, ma si sarebbe potuto dire che erano cresciuti insieme. Poi era andato a studiare letteratura moderna e si era ritrovato a fare il giornalista, e da quel momento le sue visite si erano fatte più rade, seppur continuasse a mantenere un fitto rapporto epistolare con Alban, che parlava di lui sempre con un certo orgoglio, come se fosse figlio suo - in un certo senso a ben vedere lo era -.

"Ovviamente. Cosa sta facendo adesso?"



"Pare che adesso scriva quel programma di informazione di Cortex Channel Five... First Hour. - rispose Oppilana piano - e ha ripreso a farsi vedere alle cene di famiglia, anche. Da quando sua madre è morta..."


"Darcey è morta?"

Ne rimase abbastanza sorpresa. Vide sua cugina annuire in maniera ostentatamente contrita, come chi non ha sentimenti autentici. Declan considerò che non sapeva fingere bene, e piuttosto che lanciarsi in un'esibizione di quel calibro si limitò a prenderne atto con un gesto lieve del capo, mostrando il grado di interesse assai basso che quella notizia le suscitava dopo il primo impatto. Ricordò di Darcey il cognome - Owle -, i capelli di un nero brillante e i modi sfuggenti, come se fosse perennemente intimidita dalla compagnia della famiglia del defunto marito.

"Porta pure a Dylan le mie condoglianze" disse Declan in tono conclusivo, credendo la questione finita.

"Non è di questo che volevo parlarti - la ripigliò al volo Oppilana - ma di ciò di cui ho parlato con tuo padre. In verità, è stato lui a chiamarmi, per un consulto professionale"

Declan aggrottò le sopracciglia, ma non la interruppe.

"Tuo padre sta avviando le pratiche per estrometterti dal suo testamento, Declan, nominando lui come suo erede sostitutivo. Da me voleva sapere quali escamotage legali avresti potuto eventualmente trovare dopo la sua morte, in modo da renderle impossibili... un paio di settimane fa ha visto uno psichiatra per farsi rilasciare un documento ufficiale che lo dichiari capace di intendere e di volere"

Declan aprì bene gli occhi, perplessa e stupita. Serrò le labbra e respirò a fondo. Sul tavolo arrivarono i due tè, ma neanche il servizio invadente della cameriera poté distrarla dalla notizia.

"Nadja...?" chiese un attimo dopo, con una certa urgenza.


"Resta come prima, per lei: erediterà metà"

Sembrava sconvolta, per quanto sconvolta riuscisse a sembrare. Rilassò il busto sullo schienale della sedia e iniziò a ticchettare lentamente con le dita sul tavolo. Guardò fuori l'ampia vetrata che dava su Capital City, evidentemente sovrappensiero.

"Dove vive, adesso?"

"Dylan?"

"Sì"


Oppilana sospirò appena. Andò a cercare nella borsa e tirò fuori un biglietto di carta - le piacevano particolarmente gli strumenti analogici e desueti da quando, a vent'anni, aveva fatto una splendida vacanza a Greenfield -. Porse il biglietto a Declan, che lo prese. Era l'indirizzo di un sobborgo di Capital City. Declan ringraziò e pagò il conto. Tornò alla macchina contando a mente a quanto corrispondesse il valore di Dylan Jamison Khan agli occhi di suo padre.

the train job



Due donne eleganti, vestite di nero, siedono al tavolo di un locale interrato dall'aria fumosa, satura di musica. Hanno occhi azzurri, polsi sottili e bicchieri di whisky con ghiaccio. Una ha i capelli rossi, l'altra è bionda.


Un vagone sfreccia sui binari. Sulle rotaie vi sono cinque persone immobilizzate, che non possono scappare. C'è uno scambio che può azionare, e che devierà il vagone su un'altra rotaia. Ad un prezzo, però: sull'altra rotaia si trova una persona sola, ugualmente immobilizzata, ugualmente impossibilitata a scappare. Non ha modo di fermare il treno, non ha modo di salvare tutti, non ha modo di intervenire se non spostando quella leva. La azionerebbe? 
E' un gioco che serve a etichettarti come maniaco assassino se rispondi no e come sempliciotto se rispondi di sì.  
Non proprio: è uno studio condotto a campione. Circa il novantadue virgola sei percento delle persone sottoposte al test risponde che azionerebbe la leva. Il processo interessante avviene nel secondo step del test, quando viene posto un dilemma simile, ma in forma diversa. C'è sempre il vagone, ci sono ancora le cinque persone bloccate. Questa volta lei si trova su un ponte sopra la rotaia, insieme ad una persona. Può decidere spingere di sotto quella persona, che col suo corpo frenerebbe l'avanzare del treno, ma morirebbe. Oppure può non fare niente, e lasciare le cinque persone morire. 
Il novantatré percento. Immagino che per il novantatré percento delle persone attribuisca un peso maggiore alla morte del singolo se si tratta di causarla direttamente.  
Non il novantatré percento, ma la spiccata maggioranza, sì. E' interessante, non trova? La prova che l'empatia non è uniforme come tendiamo a considerarla, ma è anzi quantomeno variabile. Se non propriamente schizofrenica. 
Niente di nuovo. E' facile uccidere centinaia di migliaia di persone restando oltre un vetro in una sala comandi. Ucciderne una sola sentendo il suo respiro fermarsi... è tutta un'altra cosa. Rende le dimensioni della faccenda. Siamo ridicoli. Noi umani. 
 Lei cosa farebbe?  
E' rilevante? Si tratterebbe comunque di sacrificare qualcuno. Non c'è differenza. Lei?  
Quindi lei non pensa che la vita di cinque persone valga più di quella di una sola? 
Cinque persone sono una, e una, e una, e una e ancora una.  Parliamo di quantità, di qualità? Come si fa a decidere chi merita di vivere e chi merita di morire? 
Allora lei non farebbe nulla, in nessuno dei due casi.  
Non l'ho mai detto. 
Immagino dipenda dallo schema di valori a cui si vuole far riferimento. Qualcuno comparerebbe l'età, altri la funzione nel gruppo familiare, altri ancora nel gruppo sociale più ampio. 
Roba da perderci la testa.  
Dice? Alla fine si riduce tutto ad un semplice calcolo. Anche nella matematica bisogna decidere a che modello fare riferimento, del resto. 
Si riduce tutto a cercare di agire per il meglio. E il meglio può richiedere di scegliere, adottare e cambiare modelli in base alle circostanze. Chi lo sa. Mi augurerei di non trovarmi mai in una situazione del genere.  
E il meglio non è un modello anch'esso? Quanto varia da persona a persona? Si tratta comunque di fare una decisione basandosi su un dogma. O no? 
Oh. Immagino molto. Per un alleato il meglio è bombardare Shadetrack per portare la civiltà. Per un terrorista il meglio è massacrare corer a St Andrews. Credo sia tutto relativo. Dipende dalla sensibilità, dal substrato culturale, dall'elasticità mentale, dal vissuto. Io probabilmente farei qualche rapido calcolo prima di decidere se azionare la leva o meno. Deciderei che cosa è meglio sulla base di valutazioni matematiche. Un'altra persona potrebbe basarsi sulla propria sensibilità, sul... concetto di empatia di cui parlava prima. Azionare la leva. Ma se poi per le condizioni contingenti il convoglio si ribalta, finisce sull'altro binario, uccide anche gli altri cinque?  
Ma la scelta è tra due opzioni nette, pulite. Cercare imprevisti è una forma di indecisione.  
La realtà non è mai netta, pulita. La vita reale è piena di variabili impreviste.  
Eppure la vita reale ha un netto vantaggio sulla matematica, non trova? Le variabili della nostra esistenza sono sempre e solo quelle che noi accettiamo in essa. 
Non mi ha ancora detto che cosa farebbe lei.  
 Io deciderei chi merita di vivere. 
Chi, nella fattispecie?  
Il più utile