10/01/13

don't you feel anything? anything at all?



"Sembra turbata"

Declan non rispose. Era in silenzio da diversi minuti, ormai, occupata a guardare il cactus artificiale sul davanzale della finestra di un ampio studio arredato con colori caldi, accoglienti. Il suo terapeuta ticchettò  impercettibilmente i polpastrelli sul bracciolo della poltrona.

"E' pelle sintetica"

Il terapeuta sollevò le sopracciglia. Ci mise un po' a capire che si riferiva alla poltrona.

"Immagino di sì..."
"In verità ogni cosa è sintetica, nei mondi non rurali. Se non sintetica, artificiale. Quello... - puntò con delicatezza un indice sottile verso il cactus - è un essere vivente. Ha bisogno di acqua, anche se raramente, e luce solare, altrimenti morirebbe. Allo stesso tempo è artificiale, perché non è nato naturalmente. La loro versione originale nelle sue condizioni naturali fiorisce, lascia i semi... si riproduce così. Questi non sono in grado di riprodursi, né di fiorire. Sono viventi, ma vengono creati in provetta e cresciuti in serre dove anche i terreni sono sintetizzati chimicamente. I concimi, poi, chiaramente."
"Cosa intende dire?"

Declan scosse leggermente il capo. Rimase a guardare il cactus per un po', poi distolse lo sguardo.

"Viviamo in un mondo artificiale, tutti noi. Non c'è niente che sia nato in natura. Non un albero dell'Unification Park, non una pianta delle terrazze verdi né un animale dei suoi parchi biologici. Siamo noi a crearli, noi abbiamo creato la scienza che ci permette di popolare i nostri giardini con insetti, microbi, funghi quasi reali, quasi funzionanti come gli originali. Potrei uscire da qui, camminare per ore da un capo all'altro della città e non trovare una singola cosa che sia nata in natura. Abbiamo fatto tutto noi, ma per qualche motivo oggi preferiamo il cibo naturale, la carne strappata dalle ossa di un agnello cresciuto interamente in un utero naturale e venuto al mondo tramite parto tradizionale. Cosa c'è di tanto meraviglioso? Cosa c'è di tanto apprezzabile nell'essere in balìa delle carestie e degli umori della natura? O nell'essere in balìa di tempeste emotive che annullano ogni forma di razionalità?"
"Spesso non è una scelta, miss Khan. Dominare le emozioni è qualcosa che poche persone sono in grado di fare: sono qualcosa di dirompente, totalizzante. Lei... può immaginarlo?"

Declan rise piano, amareggiata, e scosse appena il capo.

"Posso fumare?"
"Sì, certo. Attivi il depuratore, però"

Attivò il depuratore e poi si accese la sigaretta.

"Mio padre ha deciso di diseredarmi"
"..."
"E' una notizia recente. La mia parte andrà al figlio del fratello defunto di mio padre. Un giovane idealista sagace e impaziente, che vive nei sobborghi di Capital City in un monolocale che puzza di sigarette economiche"
"Perché pensa che abbia preso questa decisione? Da ciò che mi aveva detto, la situazione tra voi due non appariva così... drastica"
"A quanto pare lo è a sufficienza da farmi disconoscere come figlia"
"Non penso sia quello che stia facendo. Ha considerato che suo cugino potrebbe aver bisogno dell'eredità più di lei? Forse suo padre ha considerato che lei non avrà bisogno, in futuro, di quei soldi"
"Non sono solo soldi. Si tratta delle case, del patrimonio. Conosco ciò che mi spetta... che mi spetterebbe. Abbiamo dodicimila libri digitali, settecentottantasei volumi cartacei di valore inestimabile. Un orologio da polso risalente alla prima colonizzazione, passato da padre in figlio per cinque secoli. Sono la prima primogenita Khan che non lo avrà. E' una scelta molto personale... è ovvio. Non mi considera più parte della famiglia"

Continuò a fumare. In maniera del tutto inspiegabile, le fece male la testa. L'ultima volta che si era ammalata era stato sei anni prima.

"Immagino lei abbia un'idea di ciò che suo padre disapprova di lei..."
"Mio padre disapprova me. In un certo senso, è quasi liberatorio vedere come l'abbia riconosciuto a scanso di ogni possibile equivoco. Non approva il lavoro che ho scelto. Non capisce il mio modo di vedere le cose, né come..."
"Vada avanti"
"Ho un'ottima memoria"

"Lo so"
"Provarono a farmi diagnosticare l'Asperger, quando avevo sei anni. Quando l'esito fu negativo sembrò quasi insoddisfatto. Come se non riuscisse a capacitarsi di come potessi stare bene, eppure essere così. Allora avevo bisogno di precisione, di ordine. Uscire anche il minimo dalla routine mi faceva avere attacchi di rabbia. Una volta tirai una mazza da polo contro una finestra, in villeggiatura a Corona. Quando nacque Nadja, non mi lasciavano mai sola con lei. Mi hanno fatto credere per tutta una vita che avessi un difetto di fabbrica. Sono dovuta crescere per capire che potevo sfruttarlo, che era ciò che mi avrebbe concesso di arrivare più in alto degli altri. Che non avevo necessità di sentirmi mortificata, solo perché ero diversa"
"Capita che ci diciamo di essere diversi per giustificare una serie di comportamenti non funzionali mentre..."
"No, lei..."
"... mentre invece è solo un modo per negare che richiedono la nostra pazienza e il nostro lavoro per essere modificati"

Declan scosse il capo con più vigore, sfiorandosi la fronte con due dita e ridendo piano.

"No, lei non capisce: sono diversa. Il mio cervello funziona diversamente. Le connessioni tra l'amigdala e la corteccia prefrontale ventromediale sono in quantità minore rispetto allo standard. Sono differenze strutturali e funzionali. Faccio uno scan totale ogni anno da quando ho scoperto che fosse possibile. Non sono malata. Non ho niente di disfunzionale. Sono strutturalmente migliore."
"Lei... ritiene di non avere niente che non va, miss Khan?"
"Esattamente"
"Dice di non ritenersi malata, ma di ritenersi perfettamente funzionale. Sana."
"Sì"
"Mi permetta una domanda"
"Chieda pure"
"Lei segue la terapia ormai da circa... venti anni"
"E' corretto"
"... 
Perchè?"

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