07/01/13

Jamie (2)


Al sesto piano di un grigio palazzo dei sobborghi più periferici di Capital City, Dylan Jamison Khan dormiva in un letto a muro con un piede sfondato, infilato tra delle lenzuola che non lavava da un mese abbondante e calato in un sonno profondo. L'ostinato trillare del campanello lo trovò vestito sotto le coperte, seppur senza cintura e con la camicia tutta sgualcita. Raggiunse la porta imprecando a mezza voce contro chiunque lo stesse disturbando alle undici di domenica mattina ma, quando occhieggiò dallo spioncino, rimase onestamente perplesso. 

Dall'altra parte c'era Declan Khan. Lei stessa aveva dovuto scavalcare un paio di ostacoli lungo il cammino - nella fattispecie due bambini lerci che giocavano nel bel mezzo del corridoio come cani sciolti -, e ora era ritta davanti alla porta nel suo bel cappotto grigio antracite e con le mani giunte davanti al ventre, in stoica e paziente attesa. Quando Dylan aprì la porta, sbattendo le palpebre un po' incredulo, lei gli sorrise.

Dylan aveva trent'anni, ma a parte un filo di barba sfatta era identico a dieci anni prima, più o meno l'ultima volta in cui lui e sua cugina si erano visti. I capelli di un nero lucido erano della madre, mentre gli occhi azzurri e la linea del viso che si stringeva all'altezza del mento testimoniavano i caratteri genetici dominanti dei Khan.  

"Posso entrare?"

Il ragazzo fece un passo di lato e allargò platealmente un braccio, invitandola ad accomodarsi. Non era tipo da imbarazzarsi per il proprio disordine, ma con il tallone spinse sotto divano un paio di mutande randagio. 

"Ti sei trovato un posto... caratteristico"

Chiaramente era un eufemismo. Innanzi tutto, era un monolocale. In secondo luogo, era tutt'altro che luminoso, e aveva un fastidioso odore di chiuso. Infine, il quartiere era noto per essere quello a più alto tasso di criminalità di tutta la città. Si sarebbe detto che il co-autore di uno dei programmi di informazione più celebri nella regione avrebbe dovuto riuscire a concedersi un posto quantomeno decente, ma lui voleva essere così: tutti quelli che l'avevano conosciuto un po' lo sapevano. In fondo, anche Declan.

"Posso offrirti qualcosa? - chiese lui guardandola con un disagio piuttosto vago. Ricevette un sorriso che sottintendeva come non avrebbe mai accettato niente che si fosse trovato in quella casa. Si passò una mano sulla faccia e tirò su col naso, ancora onestamente assonnato - non ci vediamo da un po', no?"

"Ultimamente recuperare rapporti familiari con persone in grado di notare l'ovvio sembra il leitmotif della mia esistenza" commentò lei con una delicatezza poco interessata. Analizzò il monolocale con attenzione, quindi selezionò una sedia accettabile e vi si accomodò a gambe incrociate, rilassando i muscoli. Diede a Dylan la possibilità di studiarla per un po'. Era una donna diversa da quella che ricordava, almeno in superficie: così come in gioventù appariva sempre fuori posto, adesso il giovane Khan notava una serie di movimenti e rituali atti a mettersi prepotentemente a proprio agio anche in un ambiente che doveva sembrarle così terribilmente ostile. La capacità di osservare... forse anche quella era un tratto genetico. Nonostante ciò, continuava a navigare perduto tra sonno e ignoranza: che ci faceva a casa sua?

"Allora. Come te la passi, Jamie?"

"Mh... - sorrise in maniera sfuggente, arricciando perlopiù le labbra di lato. Non era molto alto, e nessuno l'avrebbe definito propriamente bello: sembrava quasi che la pelle gli si tendesse su ossa troppo grandi, adatte a sostenere un peso ben maggiore dei suoi settantatré chili scarsi. Nonostante ciò, aveva qualcosa. Si avvicinò a un quadrato di scrivania addossata contro un muro coperto di ritagli di articoli e foto, collegati tra loro con fili sottili, di colori diversi. Cercò tra le carte. - gli unici che mi chiamano ancora Jamie siete tuo padre e... voi, della famiglia. Della famiglia di papà - trasse una sigaretta sgualcita e se la infilò tra le labbra, ciancicando una risposta mentre l'accendeva - sto bene, grazie. Lo dico ad un sacco di gente, ultimamente"

"Sì, ho saputo di Darcey. Le mie condoglianze. Te le avrei fatte prima, se ne fossi stata a conoscenza"

"Ne sono sicuro. Alban mi ha detto della vostra lite"

Diretto come un treno, tanto da farle sollevare le sopracciglia in un moto di sorpresa molto lieve, che a lui non sfuggì. Uscire dagli schemi era la sua attività preferita fin da bambino. Ne traeva una gioia pulita e infantile, ed era la qualità che lo rendeva un ottimo giornalista così come un pessimo sottoposto: l'unica cosa certa era che Dylan Khan non avrebbe mai fatto ciò che da lui ci si aspettava. Giocare d'anticipo con lui era impossibile, vedere oltre le sue azioni anche. Dietro il viso chiaro da adolescente si celava l'imperscrutabilità scritta nei suoi geni, combattuta ogni giorno da qualcos'altro, qualcosa di arrogantemente affascinante. Declan lo osservò espirare il fumo e guardarla in attesa impaziente, chiedendosi che cosa fosse.

"Cosa ci fai qui, Lane?"

Declan sorrise. Composta, già a proprio agio, guardava il suo interlocutore con un'aggressività feroce ed elegante. "Tu e Nadja siete gli unici a chiamarmi Lane. - l'eco di lui poco prima - la domanda esatta sarebbe cosa ci fai tu, Jamie. Sparisci per anni mandando solo holo-auguri per l'Exodus Day, ma torni non appena vengo - assottigliò lo sguardo - scortesemente invitata a non presentarmi più nella dimora paterna. Stai circuendo mio padre?"

Ne studiò attentamente l'espressione del viso: lo sconcerto sembrava genuino. Come una tigre appostata dietro i cespugli, Declan sembrava pronta ad afferrargli la giugulare tra i denti. Voleva dare l'impressione di essere a caccia. Dylan colse come, invece, stava proteggendo il territorio che considerava suo.

"Circuendo tuo padre...?" scandì cautamente.

"Non fingere con me, Jamie"

"Non so di cosa tu stia parlando"

Scrollò mezza sigaretta nel posacenere, più o meno: non lo guardò e lo mancò di buone due dita senza nemmeno rendersene conto. Il monolocale era così angusto che il fumo l'aveva già riempito. Lei non ne apparve infastidita.

"Non sai niente del testamento" si assicurò lei, scettica.

"Quale testamento, Lane?"

Notò in lui qualcosa di particolare, una vibrazione sotto i muscoli delle spalle infastidita. Ripercorse a mente le proprie parole con la precisione di una registrazione. Era una reazione alla parola testamento. Valutò le variabili, valutò l'inclinazione delle sue labbra e quanto le palpebre si fossero assottigliate. Aveva avuto un moto di stizza. E ad un certo punto le fu chiaro in cosa risedesse il fascino di Dylan: era un idealista. Accennare a qualcosa di tanto venale come un testamento lo aveva irrigidito come se fosse alle sue orecchie qualcosa di repulsivo. Quella sfacciataggine adolescenziale che si portava addosso era quella di qualcuno convinto che nell'universo esistano ancora valori assoluti, un bene supremo da servire, un destino personale da compiere.

Mentre ancora lui la osservava, Declan si alzò in piedi con grazia e si sistemò il cappotto. Senza aggiungere altro uscì dalla porta di casa sul corridoio, superò i due bambini lerci ancora occupati ad intrattenersi con giocattoli rotti, e tornò senza fretta in strada, dove il suo autista la aspettava.


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