13/01/13

you think I'm a freak



7 Maggio 2492, Jutòu, Xinhion.

Declan Khan era una bambina di undici anni con la pelle chiara e i capelli rossi tagliati in un caschetto ordinato. A braccia conserte e con lo sguardo assente, attendeva che suo padre uscisse dall'ufficio del preside. Passava gli occhi distrattamente sulla finestra da cui si intravede un prato ordinato, l'erba geneticamente modificata per non crescere mai più di quattro centimetri, seppure l'amministrazione avesse votato a favore dell'acquisto di un tosaerba automatico che la teneva rigorosamente all'altezza di tre virgola cinque centimetri. Il verde erba - un verde erba così erba che neanche l'erba cresciuta spontanea in natura aveva mai avuto quel colore - era incorniciato dal candore maestoso del marmo. La sua scuola era così, di una bellezza artificiale e sofisticata. Un po' come le famiglie dei ragazzi iscritti.

Alban Khan, un metro e novantuno e i capelli ancora neri, uscì dall'ufficio con un'espressione scura e severa incastrata negli occhi. Declan lo seguì in macchina senza dar segno di provare molto interesse per il motivo di quell'umore, e quando entrò nell'abitacolo lo fece sedendosi al posto del passeggero, proprio accanto al guidatore. Iniziarono a parlare solo dopo il settimo chilometro.

"Sono fuori di me, Declan. - esordì piano. Tendeva ad abbassare la voce quando era (appunto) fuori di sé - non ho idea da chi tu possa aver ripreso questo atteggiamento, né chi possa avertelo insegnato."

Declan non parve ferita. Assente, si era poggiata con la tempia contro il finestrino e osservava il paesaggio urbano che scorreva ai lati della macchina, intenta a occupare il tempo contando i pedoni. Novantaquattro. Novantacinque. Non esisteva un angolo di Jutòu che non fosse stracolmo di gente.

"Ciò che hai fatto non ha giustificazioni. Questa tua compagna di classe, Ashanti..."
"Ashani"
"Ashani. I suoi genitori vogliono farti espellere, lo sai? Ti rendi conto di quanto sia grave? Ti rendi conto di ciò che hai fatto?"
"Io non ho fatto niente"
"Non mentirmi!"

Si mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio e sospirò.

"Perché ce l'hai tanto con lei? Santo cielo, Declan: le falsità, la vernice nello shampoo, gli animali morti nell'armadietto..." gli si tagliò la voce nella gola: anche solo a pensarci sentiva il petto stringersi in una morsa.
"Non hanno prove"
"Tutte le ragazzine hanno detto che le hai istigate tu. Che... per dio!"

Alban Khan imprecava con un tale trasporto di rado. La macchina ebbe uno sbalzo lieve di lato, tornando subito in carreggiata. Lui scosse il capo e iniziò la manovra per accostare. A macchina ferma e con un po' di calma recuperata tornò a voltarsi verso la giovanissima figlia.


"Insomma... che ti ha fatto?"


Declan sembrò riluttante. Per un attimo.


"Faccio quello che mi dite voi"


Alban sbatté le palpebre per un attimo senza parole. "Quello che ti diciamo noi?"

"Due anni fa: Declan non fa amicizia, Declan non cerca la compagnia dei suoi coetanei, Declan ha bisogno di socializzare. Stiamo studiando le guerre, a storia. Sai cosa mette insieme i pianeti? I nemici comuni. Prendi un nemico, gli altri si stringono attorno a te contro il nemico comune. Perché devo diventare io come gli altri? Perché gli altri non possono diventare come me?" 

Mentre parlava incassava sempre di più la testa tra le spalle. Aveva le spalle tese, le sopracciglia vicine, gli occhi inquieti di quando si sentiva inadatta. Alban aveva imparato a riconoscere i segni di una crisi prima che scoppiasse. Sospirò a fondo per essere calmo e trasmettere calma. Riportò alla memoria il libro che lo psicologo infantile aveva dato da leggere un anno prima a lui e a sua moglie. Che diceva?

"Declan, noi ti vogliamo bene a pre..."
"A prescindere di tutto. L'ho letto anche io, il concetto chiave nel libro. Pensate che sia strana, che sia un freak. Ma è perché non guardate attentamente. Basta far credere alla gente che sai ciò che stai facendo, e quella ti segue senza batter ciglio. Tutti hanno fatto qualcosa. Il lassativo nel cibo, la vernice nello shampoo, la rana vivisezionata nell'armadietto... io non ho toccato niente. Non ho fatto niente. Vuoi che io diventi come gli altri, perché pensi sia un freak. Guarda adesso: sono tutti come me, sono tutti freak. E' bastato fargli credere che fosse normale."

Non era prima volta che la sua lucidità di vedute lo sorprendeva. Pensò a come articolare una risposta. Ma in realtà non c'era una vera domanda a cui rispondere.

"Noi non pensiamo che tu sia un freak..."
"Non mentirmi!" gli fece eco lei.
"Declan, ascoltami..."
"Non mentirmi!"

Si può dire che Alban Khan non fosse un uomo affettivamente reattivo. Non aveva mai gestito da solo una di quelle crisi e, diciamolo, non era neanche tanto bravo ad evitare che accadessero. Tese le mani verso la ragazzina tentando di afferrarle le braccia, ma ricevette di rimando una scrollata brusca e un grido sorso, continuo, animale. L'ira, tra le proto-emozioni, è forse la più intensa e la più semplice. La vide prendere il possesso di sua figlia, farle battere sul finestrino e farle lanciare il suo zaino contro il parabrezza. La vide prendere a calci il cruscotto e diventare della stessa tonalità dei capelli, e agitarsi in una convulsione irrazionale e disperata, e incontrollabile, e sconvolge, e lui rimase sconvolto e stupefatto dall'idea che un corpo così piccolo potesse contenere tanta voce e tanta rabbia. Non disse niente. La lasciò sfogare per una quantità di tempo indefinita, lunghissima, colmo di orrore. 

Si sentì il cuore in gola. Era una sensazione di cui non si sarebbe mai più liberato.

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