27/11/12

working class villains



Corona, 8 agosto 2499.

Alban Khan e sua moglie contrattavano da almeno un quarto d'ora.

"Faremo tardi"
"Ci sono andato l'ultima volta"
"Lo sai che sei l'unico che ascolta"
"Non mi ha ascoltato l'ultima volta"
"Statisticamente parlando..."
"Usciamo e basta, faremo tardi"


Louise Nerhu era una donna dallo sguardo accogliente, raddolcito da diciotto anni di esperienza materna insolita e, per molto tempo, poco appagante. Si mise risoluta le mani sui fianchi osservando per qualche istante una bambina di undici anni intenta a giocare a un holo-game di simulazione nel salotto. Aveva i capelli rossi che venivano trasmessi, di generazione in generazione, dalla linea genetica materna di Louise.

"Ogni volta questa storia, è ridicolo" lamentò con un sospiro. Si mise a salire le scale tirandosi sulle caviglie l'elegante abito da sera che indossava. Raggiunta la stanza della figlia maggiore, bussò un paio di volte ed entrò con discrezione, ma senza aspettare l'avanti.

"Lane", chiamò con una certa risolutezza.

"Lane" era seduta a gambe conserte in una morbida poltrona di pelle. Indossava una maglietta delle Shenzen Tigers e i pantaloni di una tuta. La montatura nera degli occhiali da vista nascondeva in parte un viso dai lineamenti morbidi, ma non ancora definitivi.

"Dimmi" la messa a fuoco del suo sguardo attraversò l'holografia parziale al centro della stanza e raggiunse Louise. Era una proiezione muta, la rappresentazione di un cervello umano nel momento di attivazione del suo lobo temporale anteriore. A Louise si strinse appena il cuore, come accadeva ogni volta che sorprendeva sua figlia in attività inusuali per una ragazza della sua età. Declan interruppe la simulazione e rimpicciolì la proiezione olografica senza fretta, ma sfuggendo per un paio d'istanti lo sguardo di sua madre.

"Sei sicura di non voler venire?"
"Sì, sono sicura"
"Mh. Come mai? Esci con Jonathan?"
"Non frequento più Jonathan dall'inizio dell'estate"

Louise spalancò bene gli occhi grandi e tondi mentre qualcosa nello stomaco si attorcigliava.

"Oh, e stai... bene?"
"Perché non dovrei"


L'assoluta neutralità della voce di sua figlia non la lasciava ormai più spiazzata da tempo. Durante l'infanzia avevano pensato ad una forma particolare di Asperger, ma gli specialisti non avevano diagnosticato niente di simile. Ad ogni modo, non era un mistero come avesse giornate buone e giornate meno buone. Nelle giornate buone si sforzava di dare un po' più di espressività alle sue comunicazioni. Louise si chiuse la porta alle spalle e attraversò cautamente la stanza seguita da uno sguardo chiarissimo ed estraneo. Si accomodò all'angolo del letto.

"A maggior ragione, dovresti venire con noi"
"Ho da fare"
"Non puoi rimandare a domani?"
"Preferirei di no"


Louise si lisciò le pieghe sulla gonna del vestito, crucciata.

"Con chi sei uscita queste settimane, se non vedi più Jonathan?"
"Con altre persone"


Declan riavviò il movimento dell'holografia parziale, tornando ad osservare a dimensioni adesso più ridotte l'attività di un comune lobo temporale. Comune, di una persona comune. Della maggior parte delle persone comuni. Gli occhi chiari si fecero assenti, ma Louise sentì l'impazienza della figlia senza troppi sforzi. Voleva se ne andasse.

"Ci sono ragazzi della tua età con cui ti potrebbe piacere parlare"
"Non conosco praticamente nessuno"
"Puoi fare conoscenza. Il figlio sedicenne dei Keynard partirà per l'università, questo semestre. Andrà a studiare giurisprudenza"
"William Keynard?"
"Proprio lui, lo conosci?"
"Di nome. Non mi interessa"
"Il figlio dei Carter?"
"Quale?"

"Non lo so... - ce ne erano così tanti - Holden Carter?"

Declan sbattè le palpebre un'unica volta, lievemente seccata. Spense l'holoproiezione e scivolò verso l'armadio, spalancando le due ante. Aveva una notevole quantità di vestiti, ma indossava regolarmente forse tre, quattro capi. Tutti rigorosamente neri.

"Avete cenato con i Collins cinque settimane fa e mi avete parlato di tre fratelli"
"Sì, Holden dovrebbe essere il più giovane"
"Avete detto Heathcliff, Herbert e Holden. Il primo laureato in medicina, il secondo economista e probabile erede dell'impero Collins e il terzo adolescente che da grande vuole fare il
- storse le labbra - musicista"

Louise ascoltò attentamente, piegò le labbra al disprezzo con cui pronunciava la parola "adolescente". E' un'adolescente anche lei, pensò. Anagraficamente, si corresse. Poi si corresse di nuovo: la misantropia galoppante era evidentemente un segno dell'età.

"Qual è il problema?"
"Ce ne sono vari. Il primo è che non mi sembrano persone interessanti
- selezionò una camicia nera e un paio di pantaloni dello stesso colore. Si infilò dietrò il paravento di carta velina lavorata e iniziò a cambiarsi - il secondo è che tra tutti e tre hai pensato che potessi essere più vicina al figlio di ricca famiglia che disprezza le sue origini e si sente incompreso dal mondo. - era brava ad indovinare, o perlomeno lo sembrava. In verità la metà dei figli degli amici dei suoi genitori non era troppo dissimile da Holden Carter. - la dice lunga sull'idea che hai di me"
"E' difficile avere un'idea di te, Lane, non comunichi molto."
"Penso di comunicare il giusto"
"Gli altri due, non ti stanno simpatici neanche quelli?"
"Non è una questione di simpatia"
"Non li trovi interessanti, allora. Heathcliff?"
"E' un medico..."
"E quindi?"
Louise si sentì leggermente offesa.
"Niente"
, rispose Declan, evasiva. Intanto pensava: è un medico - anni di sacrifici, orari disumani, notti insonni per occuparsi del benesse altrui. Un filantropo. 'Un filantropo', nella sua considerazione, non era un complimento.
"Herbert Carter, allora? - ritentò esausta Louise - non l'hai anche conosciuto? Cos'hai contro Herbert Carter?"
"E'... composto"
"E' composto".
La faccenda assumeva tonalità ridicole.
"Sempre opportuno, cordiale, preparato. Composto" elencò Declan di nuovo, atona.
"Quanto ci hai parlato, per curiosità?"
"Quindici minuti, circa. E' molto bello"
"Bene, è bello... è sufficiente, no?"
"Ma si è laureato in economia"
, un serio problema. Declan emerse dal paravento senza occhiali, vestita.
"Non ti va bene neanche chi si laurea in economia?"
"E' una materia poco interessante"
"Abbiamo escluso anche quella, allora. Cosa manca? Tra due settimane chiuderanno le iscrizioni ai test di ingresso di tutte le università di un certo rilievo"
le ricordò. Lei e Alban lo facevano ormai una volta al giorno, a turni.
"Non ho ancora deciso"
"Non hai una preferenza?"
"Alcune"
"Dovresti vestirti elegante..."
. Per un attimo ci sperò.
"Non vengo con voi, stanno venendo a prendermi"
"Chi?"
"Quelli con cui esco"
"Che sarebbero?"
"Non li conosci"

Declan si infilò in tasca la carta di credito - niente si pagava in contanti, su Corona - e imboccò la porta, mentre Louise rimase seduta sul letto sconfitta. Alban Khan intercettò la maggiore delle figlie più o meno alla fine delle scale interne alla casa, impettendosi un minimo.
"Vieni con noi, allora?"
"No"
"Dove vai?"
"Esco"
"Con Jonathan?"
"No"


Infilò spedita la seconda porta. Mentre scendeva due a due i gradini che l'avrebbero portata nell'ampio giardino e poi al cancello principale, Nadja Khan si affacciò dalla porta piroettando su se stessa per mostrare il bel vestito che avrebbe indossato quella sera.

"Lane, come sto?"
"Non ho tempo"
"Lane, dai! Come sto?"
cercò di strapparle un complimento, vanitosa.

Declan espirò dalle narici, si fermò in fondo alla rampa e si voltò. La guardò con attenzione inespressiva.

"Come chiunque altro"


Poi, prevedibilmente, uscì dal portone e accelerò lungo il vialetto, puntando sulla macchina che la aspettava fuori dal cancello.


* * *


"Oh, eccola"
"Ce l'ha fatta... Fitz, spostati dietro"
"Perché devo spostarmi io?"
"Sta zitto e spostati"

Fitz scrollò le spalle ed eseguì, non senza borbottare una qualche imprecazione generica: scivolò tra i sedili anteriori fino ad atterrare in mezzo a quelli posteriori, beccandosi un paio schiaffi sulla nuca da Gae. Stavano ragionevolmente stretti: la macchina era vecchia e malmessa, usata da almeno tre padroni diversi prima di giungere all'attuale. Puzzava anche, costantemente e di un odore non decifrabile. Declan si infilò al posto del passeggero, accanto al guidatore. Il guidatore (Avery Blake, detto Blake, venticinque anni, fisico da giocatore di Piramyd e pelle abbronzata dal lavoro come giardiniere in una tenuta vicina, con i capelli lunghezza robelle e gli occhi verdi) si sporse leggermente verso di lei, rivolgendole un sorriso bieco che gli tagliava la faccia a metà. Lei continuò a fissare davanti a sé, allacciando la safety belt.

"Muoviamoci, Blake"
"La signorina Khan ha fretta?"
"L'avete portato?"


Declan guardò nello specchietto retrovisore Fitz che sorrideva e sollevava i pollici. Ventidue anni, puliva le piscine dei ricchi e le tubature delle loro mogli annoiate. Jason Hudson, venticinque anni, cacciato con disonore dall'esercito alleato per aggressione e percosse verso un suo superiore, attualmente disoccupato e in visita su Corona per un qualche tipo di "ingaggio" non meglio definito. Gae Wong, ventuno anni, vita sottile e lineamenti orientali, sul pianeta per cercar lavoro da modella e come sempre era già avanzatamente brilla all'inizio della serata. Passò alla nuova arrivata una lattina di vino sintetico. In fondo distribuire le lattine era più o meno quello che avrebbe fatto più tardi nella vita.

Declan se l'aprì e iniziò a bere, mentre Blake avviava il motore e partiva verso le tenute boschive riservate alla caccia. Non era stagione di caccia, in realtà, ma non vi erano a Corona altri luoghi buoni per esercitarsi a sparare.

Arrivati alla fine di uno sterrato al centro di un'ampia radura circondata dal bosco, gli altri uscirono dalla macchina facendo chiasso. Declan rimase al suo posto con le gambe incrociate. Si sfilò una sigaretta dalla tasca e se la mise tra le labbra. Jason si affacciò dal retro dell'abitacolo, che non aveva lasciato. Le porse il fuoco di uno zippo, rimanendo poi poggiato con i gomiti ai sedili anteriori.

"Pronta?"
. Glielo chiese vicino al viso.
Declan sorrise ed espirò il fumo dalle labbra. I fari della macchina erano l'unica cosa ad aprire il buio che li circondava. Sparsi nella radura, Blake e Fitz iniziarono a cantare Major Tom mentre Gae teneva il tempo con le mani, o perlomeno ci provava.
"Sempre". Vide nello specchietto retrovisore Jason che si ritraeva per andare a pescare qualcosa dal bagagliaio coperto. L'acciaio del fucile scintillò per un attimo.
"Te lo ricordi come ti ho detto che si fa?". Jason le sfilò la sigaretta dalle labbra e la spense nel posacenere della macchina mentre lei apriva il finestrino e scivolava al posto del guidatore. Quello che dava sulla radura. Prese il fucile con delicatezza. Sentirne il peso le fece venire la pelle d'oca. Sorrise mentre se lo poggiava contro la spalla, puntando la canna fuori dal finestrino. Jason scavalcò i sedili e si mise accanto a lei, dietro di lei, attaccato a lei. Ne sistemò la postura mentre lei guardava nel buio rischiarato appena da una luna pigra. Poteva vedere le cime degli alberi. Faceva caldo. Gae era caduta per terra e rideva tenendosi la pancia con le mani.
"Te lo ricordi?" ripetè lui. Declan ne sentì il respiro addosso.
"Gli occhi nel mirino, i muscoli leggermente rigidi. Pronta al rinculo. Lo so."
"Dove miri?"
"L'albero grande"
. Trenta metri, un bersaglio ingombrante e ragionevole. Jason le passò le labbra sul collo bianco mentre lei sistemava la canna sulla linea retta che conduceva all'albero.
"Ridimmela - chiese lei piano, concentrata - quella cosa che recitavate nell'esercito. Ridimmela". Lui sorrise.
"Io non miro con la mia mano - iniziò a sussurrarle nell'orecchio - colui che mira con la mano ha dimenticato il volto di suo padre".
Declan fece scivolare lo sguardo di lato, ma attraverso il mirino. Fitz continuava a cantare and the stars look very different today; Blake aveva per qualche motivo il fiatone e si reggeva con le mani sulle ginocchia.
"Io miro con gli occhi - le passo le labbra asciutte dietro l'orecchio - Io non sparo con la mia mano. - le baciò la linea del viso - colui che spara con la mano ha dimenticato il volto di suo padre - scese sul collo - io sparo con la mente"
Declan corresse appena la mira: nessuno fa centro al primo colpo. Mise la schiena di Blake al centro del mirino, ripetendo a mente: io non uccido con la mia pistola.
Lui continuò, non si era accorto di niente: "io non uccido con la mia pistola. Colui che uccide con la pistola ha dimenticato il volto di suo padre" passò le labbra sulla sua nuca, provocandole un brivido. Era solo un gioco, tra loro due. Ogni tanto ci vuole un po' di adrenalina. Ogni tanto mi ci vuole una rossa, e a lei ogni tanto a lei ci vuole qualcuno che le faccia sentire che vuol dire avere un uomo, e non un lacchè. Erano bravate da ragazzi. Era sesso, o quantomeno qualcosa di pseudoerotico. Era roba per passare il tempo in una vita mortalmente noiosa. La noia ti uccide, lei lo ripeteva spesso.
"Io uccido con il cuore" terminò.
Si sentì il fragore dello sparo a due miglia di distanza. Coprì l'urlo spaventato di Gae e tutte le bestemmie che riuscì a vomitare Fitz in un paio di secondi. Blake era caduto per terra e respirava in modo affannato reggendosi una gamba. Anche Jason imprecò e si precipitò fuori dalla macchina, correndo verso il caduto. Lei tenne gli occhi spalancati, fissi sulla scena, vittima di un'estasi incredula. Blake urlava figlidiputtana ai quattro venti mentre Jason le faceva ampi gesti per metterle fretta e farle spostare la macchina più vicino, dove avrebbero potuto caricarlo facilmente e portarlo in ospedale. Quando vide che non rispondeva, che aveva gli occhi ipnotizzati dal ragazzo agonizzante a terra, andò verso di lei e sfilò il fucile dal finestrino, tenendolo puntato contro il terreno. Vide che le mani le tremavano forte.

"Che cazzo di merda hai in testa?" le chiese tagliando le parole come si faceva nei sobborghi periferici di Manhattan.
"Niente - rispose lei, titubante - niente" ripetè almeno due volte. Riuscendo a trovare a stento il volante, avvicinò la macchina al gruppo e fece caricare Blake sul retro. Si girò a guardarlo. Non era una ferita grave, ma il pantalone era ugualmente zuppo di sangue. Si soffermò a valutare la faccia sofferente del ragazzo, per un attimo confusa, per un attimo esaltata.

"Parti, cazzo"
, urlò Jason.
"Parti, cazzo!" gli fece eco Gae, più stridula.

Partì.

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